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Strada senza uscita

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Роман на языке оригинала (итальянский)


Посвящается…

всем моим русскоязычным студентам.

Огромное спасибо.

CAPITOLO PRIMO

IL RISVEGLIO

Un rumore sordo e un colpo aprii gli occhi, un frenetico brusio arrivava dalla strada, ma era una lingua strana, dal forte accento, che inutilmente cercavo di capire, di tradurre. Forse stavo ancora sognando o era solo la mia mente che rifiutava il risveglio e s'inventava in modo strano per farmi capire che era meglio rimettersi a dormire. Fu solo un attimo è questo pensiero era già svanito: a quel tempo, in quelle condizioni, non avevo certamente il lusso di potermi riaddormentare. Potevo fare solo una cosa: alzarmi, raggiungere la cucina e preparare un buon caffè. Già il caffè, ma mentre cercavo di ricordare in quale direzione andare, sentivo ancora quelle voci giungere dalla strada, i toni diventano sempre più accesi, acuti; ecco, ora le distinguevo bene, sembravano due donne che litigavano in strada,

Con questo pensiero nella testa, svogliatamente, alzai dal letto e con lo sguardo cerca le pantofole: “Ah, eccone una e l'altra, quella maledetta, dove sarà finita?”, Probabilmente sarà nascosta da qualche parte, magari sarà finà un dispositivo mobile o più probabilmente sarà sotto il letto, in profondità, lì è più difficile raggiungerla, se non con l'aiuto di un bastone per tirarla via. Quella mattina il mio risveglio era stato interrotto bruscamente e certamente non aveva migliorato il mio cattivo umore. Seduto sul lato distruggi il letto, coi i piedi nudi sul pavimento, un piccolo brivido di freddo la mia pelle scossa e mi ha fatto alzare bruscamente, mentre il pensiero del caffè ”, con prepotenza, si era già fatto strada nella mia mente. Con una sola pantofola ai piedi, ciondolando come un vecchio zoppo,

Uno strano silenzio sembrava essersi impossessato dell’intero quartiere; non un lamento giungeva alle mie orecchie, come se tutt’intorno ogni rumore fosse improvvisamente ovattato. Istintivamente posai il mio sguardo sul grande orologio bianco appeso in alto, al centro del muro che, con le sue lancette nere, mi avvertiva che mancavano pochi minuti alle sette di mattina. Controvoglia mi affacciai alla fi­nestra, facendo attenzione a spostare delicatamente la tendina per evitare di essere riconosciuto; abitavo pur sempre al primo piano e non era difficile notare il mio bel faccione italiano. La curiosità aveva preso il sopravvento e con lo sguardo cercai di individuare le due donne che quella mattina, con tanto frastuono, mi avevano inopportunamente sottratto al piacevole abbraccio di Morfeo.

La mia sorpresa fu grande: la strada era vuota, deserta e potei notare solo qualche ombra che si allontanava camminando velocemente, probabil­mente per raggiungere la fermata del tram dall’altra parte del cortile. “Dove saranno finite quelle due matte” — ripetevo tra me e me — mentre il caffè espresso, con il suo profumo, aveva già inebriato tutta la cucina. Fu solo al primo sorso che mi sentii completamente sveglio e rinato; solo adesso cominciavo a capire perché non riuscivo a tradurre quelle frasi, quelle parole dall’accento così strano e tutto rapidamente divenne chiaro. Quelle donne parlavano in russo.

Ero a mille chilometri da casa, in un luogo lontano, sperduto, tra palazzoni di periferia tutti uguali, che potevo distin­guere tra loro solo dal tono sfumato dei colori sulle facciate dei muri, che il tempo e il freddo dei gelidi inverni avevano sbiadito.

Ero seduto in cucina, con la tazzina del caffè ancora in mano e una profonda malinconia mi prendeva alla gola, mi stringeva al petto. Mi guardavo intorno ed ero circondato dalla carta da parati; ogni stanza di quell’appartamento era tappezzata da disegni orrendi, con colori appena abbozzati di un giallo tenue, senza nessuna grazia, classe o bellezza.

Sembrava che il tempo si fosse improvvisamente fermato agli anni sessanta e li fosse rimasto, immobile, legato profondamente al passato comunista. Solo adesso i miei ricordi riaffioravano prepotentemente e mille pensieri si affollavano feroci nella mia mente. Ero a Minsk in Bielorussia.

Ma perché ero finito in quel posto così lontano?”, “Cosa mi aveva spinto a partire e la­sciare ogni cosa, i parenti, gli amici, un figlio?”.

Con lo sguardo perso sul fondo della tazzina seguivo una piccola goccia di caffè che scivolava lentamente lungo i bordi e all’improvviso vedevo scorrere davanti a me, come in un film, il fallimento di tutta una vita. Fin da piccolo avevo avuto un sogno da realizzare, un traguardo che già allora mi sembrava impossibile da raggiungere, come la vetta dell’Himalaya; già all’epoca mi sentivo fuori dal coro e alla classica domanda di genitori e parenti: “Cosa vuoi fare da grande?”, non rispondevo nel modo che tutti si aspettavano — da grande farò l’avvocato, il medico o l’ingegnere — ma, meno banalmente e con un misto di ingenuità e coraggio, rispondevo: “da grande farò lo scrittore di romanzi, per raccontare storie e inventare sempre nuovi personaggi”.

Non credevo di essere più intelligente dei ragazzi della mia età ma sentivo il desiderio di fare qualcosa di diverso dal “normale”, qualcosa per cui credevo di ave­re talento — scrivere libri — e questo per me era stato chiaro fin da subito.

Già in seconda elementare non erano sufficienti quattro pagine di quaderno per finire i temi d’italiano e, molto spesso, dopo aver ricevuto un bel dieci, venivo “costretto” dalla mae­stra a fare il giro delle altre classi dove, con mio grande disappunto e con un pizzico di vergogna, dovevo leggere quelle pagine, scandendo bene ogni frase ad alta voce affinché tutti potessero ascoltare i miei pensieri, le mie fantasie, i miei personaggi inventati.

Questa procedura si era ripetuta già troppe volte durante i miei primi anni di scuola e sentivo crescere dentro di me la ribellione e il fastidio di dover fare ogni volta tutti quei giri, andando di classe in classe. Sempre più spesso cercavo, con le scuse più varie e fantasiose, di sottrarmi a quella “tortura”, a quella violenza quasi fisica, ma non sempre ci riuscii. Dal confabulare delle maestre percepivo la loro ammirazione ed il loro stupore, mentre per me sembrava tutto eccessivo, quasi folle. All’epoca non si capacitavano di come un minu­scolo bambino potesse esprimere così tanta energia espressiva, avere così tanta imma­ginazione e, cosa ancora più sconcertante per loro, non commettere alcun errore grammaticale.

Inutile dire che le prime volte avevo provato un grande senso di felicità e orgoglio, soprattutto pensando a mia madre, perché potevo raccontarle fin nei minimi particolari dell’esperienza vissuta a scuola e mostrarle il bel dieci stampato a penna sul fondo del foglio. In quelle occasioni potevo leggere sul suo volto tutta la sua gioia, come se dicesse con gli occhi “ho partorito un genio”. Ma con il tempo tutto divenne più difficile e complicato da sopportare, non ero certo il tipo di ragazzino a cui piaceva mettersi in mostra e se l’essere il primo della classe aveva accresciuto la mia “fama” con le ragazzine, dall’altro cominciavo a sentire il peso di dover essere sempre “all’altezza della situazione”, comporre e scrivere temi originali e, soprattutto, senza errori.

Purtroppo, già a quell’età, dovevo imparare, a mie spese, che nella vita reale anche i bambini possono essere molto crudeli e capii che non sempre è possibile dimostrare il proprio talento senza provoca­re invidie o gelosie o qualche forma di rea­zione o ritorsione. Ma così avvenne.

Ora i ricordi si facevano più nitidi nella mia mente e come in un sogno ad occhi aperti continuavo a rivivere quei momenti e potevo quasi sentire sulla mia pelle la dolce brezza del vento di primavera. Fu proprio durante quei giorni, all’uscita dalla scuola, che fui fermato da un piccolo gruppetto di altri bambini; erano tutti alunni delle classi superiori che, senza tanti giri di parole, mi minacciarono di smetterla di scrivere in quel modo così diverso e complicato. Mi spiegarono che le loro maestre li costringevano, quasi tutti i giorni, a esercitarsi con la “scrittura creativa” e tutti erano ormai stanchi di qual continuo scrivere. Avevano individuato nel sottoscritto la soluzione a tutti i loro problemi scolastici ed il loro unico desiderio era quello di tornare alla “normalità delle vecchie lezioni”. Se non avessi smesso di scrivere in quel modo sarei stato punito nel modo più crudele, mi avrebbero scaraventato in un pozzo profondo e fatto sbranare dai loro cani inferociti. Il più grande di loro, come promemoria, mi sferrò” violentemente un pugno sul naso affinché comprendessi che facevano veramente sul serio e che le loro non erano solo minacce a vuoto.

Da quel momento in poi le mie “creazioni letterarie” diminuirono di quali­tà e originalità e, qualche volta, le infarcivo di opportuni e grossolani errori di grammatica. In ogni caso facevo attenzione a non esagerare per evitare di essere scoperto e per mantenere un voto finale soddisfacente: il sette. Con questo “piccolo trucco” e con mio grande sollievo finirono anche le “morbose” attenzioni delle mie maestre e dopo qualche tempo tutto sembrò tornare alla normalità. Dovetti subire un ultima umiliazione il giorno in cui le maestre convocarono a scuola i miei genitori, ma questa volta per parlare della mia “regressione scolastica” e non più dei miei successi. Ricordavo ancora il volto stupito di mia madre quando le confessarono della mia involuzione letteraria avvenuta in un lasso di tempo troppo breve.

Rapidamente mi adattai alla nuova situazione a scuola e nonostante provassi un forte contrasto di natura morale (mi sembrava di prendere in giro e di mentire alle persone che più amavo), non raccontai mai a nessuno quel mio segreto, neppure al mio amico più fidato, e fu sepolto, profondamente, dentro di me. Benché quella fosse stata la prima esperienza negativa della mia vita, in seguito avrei dovuto affrontare e risolvere bel altre situazioni, ancor più complicate e difficili.

Posai lentamente la tazzina di caffè nel lavandino provando ad allontanare dalla mia mente tutti quei ricordi ancora così spiacevoli e mi diressi, svogliatamente, verso la stanza da letto. Desideravo poter guardare nuovamente dalla finestra perché cercavo una nuova prospettiva, un modo migliore per poter distingue­re tutte quelle persone che, a passo veloce, percorrevano le stradine che separavano tutti quei grandi palazzoni di cui potevo notare il loro aspetto cupo ma imperioso, la regolare monotonia con cui sembravano essere stati messi in fila, uno accanto all’altro, come dei bravi soldatini.

Era in queste rare occasioni che cercavo d’immaginare il viso e gli occhi delle donne che, come tante formichine, abitavano in quelle case tutte uguali. Potevo osservarle dalle loro finestre mentre, come ombre, si muovevano di continuo da una stanza all’altra, protette da tende bianche e trasparenti dagli occhi indiscreti dei vicini. Le immaginavo armeggiare con i fornelli della cucina, indaffarate a preparare la colazione per i loro figli e mariti. Dal portone vidi uscire una figura femminile che, con passo svelto, rin­chiusa nel suo stretto cappotto per proteggersi dal freddo intenso e dal vento, si affrettò a raggiungere la fermata del tram.

Riflettevo e mi rendevo conto che, durante tutta la mia permanenza a Minsk, ancora non avevo conosciuto nessuno dei miei vicini, tranne quelle poche persone che la mia dolce e gentile padrona di casa mi aveva presentato. Tutte sembravano avere stampata sul viso quell’espressione triste e stanca di chi non ha più speranza di attendersi un futuro migliore dalla vita.

Alcune ragazze incontrate in centro mi avevano confidato il loro più grande desiderio: conoscere e sposare un uomo straniero, magari un uomo che, come me, le avrebbe portate a vivere in una bella città italiana in riva al mare. Adesso che anch’io mi trovavo in quel luogo desolato e con un futuro incerto, capivo quanto grande fosse il loro desiderio di andare in Italia e dai loro discorsi si intuiva l’amore per quel posto così lontano, ricco di storia, monumenti, dagli incantevoli panorami, con un ottimo clima e buonissimo cibo. Tutte cose che a Minsk non era possibile nemmeno lontanamente paragonare. Nonostante mi fossi recato in centro molte volte non avevo mai provato un brivido di piacere o un guizzo che avesse accesso dentro di me l’interesse per un parco, una statua o un teatro. Tutto sembrava piatto e insulso, come mangiare una pietanza senza condimento, ma la scelta di vivere in quel posto non era stata affatto casuale perché si sposava bene con il mio stato d’animo di allora e con la miseria della mia vita.

Ora non riuscivo più a fare a meno di pensare al mare, alla brezza che mi accarezzava ogni volta che passeggiavo sul lungomare di Salerno e dentro di me sentivo crescere impetuosamente il desiderio di tornare a casa, per ammirare quel colore intenso e azzurro tipico delle coste del sud Italia, dove anche d’inverno i raggi del sole riescono a scaldarti il cuore. Più restavo ancorato in quel posto e più cresceva in me la paura che sarei rimasto per sempre a Minsk, magari sepolto sotto quel freddo e gelido terreno, colpito da un infarto improvviso a causa dalla mia grande tristezza d’animo. Mi commuovevo spesso perché capivo che non avrei più rivisto i luoghi della mia infanzia, gli amici di un tempo e tutte le persone care, compreso il mio adorato figlio. Quel posto mi appariva come un deserto di ghiaccio, immenso e sconfinato, completamente aperto ed esposto a tutte le intemperie, con la costante presenza di un vento forte e gelido che soffiava e urlava perenne­mente sulle finestre delle case.

Ma non aveva senso lamentarsi contro la sorte perché avevo scelto volontariamente di venire a Minsk, senza alcuna costrizione. Desideravo solo un po’ tempo per rimettermi in sesto e avere la possibilità di ricominciare una nuova vita.

Capivo che quel nuovo giorno era iniziato in modo strano e forse per me era giunto il momen­to di tirare una lunga riga rossa sulla mia vita. Ormai avevo quasi cinquant’anni e, invece di diventare un romanziere di successo, mi ero trasformato in uno scrittore ombra, un ghost writer, pagato per scrivere articoli e storie, che poi sarebbero stati firmati da altri. Era un lavoro mal pagato e che non dava grandi soddisfazioni profes­sionali e, di tanto in tanto, cercavo di arrotondare le misere entrate lavorando come correttore di bozze per alcune case editrici. In questo modo vedevo scorrere davanti ai miei occhi le parole scritte da altri, di quelli che si sentivano scrittori da sempre e che non aveva­no voluto abbandonare il loro sogno, che non avevano mollato di un centimetro. Più leggevo e correggevo quelle bozze e più mi rendevo conto di avere sprecato tanto tempo e tutto il mio talento rincorrendo i sogni degli altri, soprattutto quelli di mia madre.

Mi ero iscritto all’università proprio per fare contenti i miei genitori e scelsi la facoltà di legge perché tutti, amici e parenti, dicevano che avevo le qualità per diventare un bravo avvocato. Una volta entrato a far parte di quel mondo mi sentivo ogni giorno più depresso, come un pesce fuori dall’acqua; durante le udienze in tribunale mi divertivo a immaginare quei mie colleghi come squali affamati, pronti ad azzannare anche la madre pur di avere un nuovo cliente importante. Frequentando quelle aule di giustizia mi accorsi che non era la legge a trionfare, ma prevaleva sempre chi, con il tempo, era riuscito a farsi un nome o aveva stretto un rapporto confidenziale e di amicizia con il giudice di turno. Per anni mi ero sentito a disagio in quell’ambiente e avevo cercato un’occasione concreta per potermene allontanare, per liberarmi da tutto quello schifo. Ma ero frenato dal prendere quella decisione perché, nonostante avessi già trent’anni, vivevo ancora a casa con i miei genitori e quando li guardavo negli occhi vedevo la loro soddisfazione, il loro orgoglio. Allora ci ripensavo e rinchiudevo in un cassetto tutti i miei progetti di fuga dalla realtà.

Come sempre accade nella vita l’occasione giusta capitò improvvisa e inaspettata: arrivò l’amore che, in un istante, travolse tutto e tutti in un istante. In poco tempo mi ritrovai a percorrere una strada completamente diversa: sposato e con un figlio in arrivo. Cercai di allontanarmi dal mondo nel quale avevo vissuto fino a quel momento e decisi di andarmene dall’Italia per provare una nuova esperienza di vita. Andai a vivere a San Pietroburgo, una bellissima città russa, costruita da Pietro il Grande sul fiume Neva, che racchiudeva in se un mix di stili architettonici diversi, prevalentemente europeo nel centro città e tipicamente russo nella vasta periferia. Mia moglie, russa, mi facilitò in questa scelta e mi proiettò in una realtà in cui mi sentivo, finalmente, a mio agio. Ebbi la fortuna di trovare subito lavoro come insegnante di lingua italiana in una scuola non lontano dal piccolo appartamento che, ormai, dividevamo in tre. Mi sentivo fortunato e felice, come non lo ero mai stato in vita mia perché adesso, nel tempo libero, potevo anche dedicarmi alla scrittura di tutto quello che desideravo: romanzi, piccole storie, poesie. Potevo scrivere e fantasticare su tutto quello che mi passava per la testa e così, tutta quella passione che avevo dentro uscì prepotentemente e si animò su centinaia di fogli di carta.

Purtroppo, come tutte le cose belle, anche quell’esperienza finì velocemente a causa dei burrascosi e quotidiani conflitti coniugali. Fu con la fine del mio matrimonio che mi decisi a tornare in Italia, lasciare quel piccolo appartamento e rinunciare alla mia vita di padre affettuoso. Nel mio ultimo ricordo mi vedevo con le valigie in mano, pronto a partire, mentre stringendo tra le braccia mio figlio ancora piccolo, gli sussurravo dolcemente nell’orecchio: “Il tuo papà ti ama e un giorno tornerà qui a riprenderti, questa è una promessa”. Purtroppo, non fui in grado di mantenere quella promessa e il ricordo di quella scena continuava a perseguitarmi nonostante il trascorrere del tempo. Forse la mia permanenza prolungata a Minsk era figlia proprio di quelle scelte sbagliate, di quei sensi di colpa che ancora mi portavo dentro.

Guardai l’orologio e vidi che il tempo era trascorso velocemente: ormai erano già le otto di mattina e non avevo ancora acceso il computer. Dovevo rimettermi subito a lavoro perché avevo ancora tante cose in sospeso da finire. Prima di immergermi nella routine quotidiana pensai di prendermi ancora qualche minuto per leggere le ultime notizie e aprire qual­che e-mail. Peraltro, solo recentemente ero riuscito a ottenere un importante incarico editoriale ed era di vitale importanza che riuscissi a portare a termine quel lavoro nei tempi concordati. Dovevo occuparmi della correzione della bozza sulla nuova riforma pensionistica, un lavoro lungo e noioso che avrebbe preso tutte le mie energie. Avevo comunque un grosso problema perché dovevo consegnare, entro la fine del mese, le bozze corrette per andare in stampa, ma fino a quel momento mi ero occupato di tutt’altro e avevo trascurato quel lavoro. Mi restavano solo pochi giorni per rispettare quel contratto e, adesso, diventava veramente urgente concentrarsi solo su quello, senza altre distrazioni o divagazioni.

Ero consapevole che, se non avessi consegnato il file entro la data stabilita, non avrei ricevuto alcun compenso, nemmeno un piccolo rimborso spese. Avevo un assoluto bisogno di quei soldi perché dovevo ancora pagare l’affitto della stanza. Ero già in ritardo di tre mensilità ma per fortuna Olga (così si chiamava la donna che mi aveva dato in affitto una camera del suo appartamento), quando mi vedeva tri­ste e sconsolato, cercava di tirarmi su di morale, ripetendomi, nel suo incerto italia­no:” Roberto, non preoccuparti per l’affitto, sono sicura che alla fine tutto si risolverà per il meglio”. Desideravo farmi perdonare per tutti quei ritardi che, ormai, stavano diventando una cattiva abitudine e pensai di invitarla fuori a cena o di comprarle dei fiori, di quelli che lei amava tanto: le rose rosse.

Olga era una donna dolce e gentile, aveva grandi occhi a mandorla che tradivano le sue origini asiatiche. Era nata in Uzbekistan, un’ex repubblica che un tempo apparteneva alla vecchia Unione Sovietica, ma ci teneva a puntualizzare che la sua mamma aveva origini russe e che, per metà, anche lei si sentiva russa. Aveva ormai supe­rato la quarantina, ma la sua bellezza non era ancora del tutto sfiorita: si vedeva che amava tenersi in forma e aveva il viso e le mani curate, l’aspetto sempre in ordine.

Una sera che eravamo rimasti soli in casa, dopo averla vista particolarmente affranta e sconsolata, le chiesi se avesse avuto desiderio di raccontarmi la sua storia familiare. Mi disse che era stata sposata con uno straniero per oltre venti anni, un egiziano che aveva lavorato a Minsk come professore universitario e con il quale aveva avuto tre figli. Le prime due figlie ormai erano già grandi, rispettiva­mente di diciotto e quattordici anni, mentre l’ultimo figlio, il maschio, aveva appena compiuto undici anni. Il marito l’aveva lasciata ed era andato via da casa due anni prima del mio arri­vo: diceva di sentirsi stanco di quella vita familiare, della monotonia di una città che, dopo tanti anni, ancora non riusciva a capire. In realtà non aveva mai sopportato lo stile di vita occidentale ostenta­to, in tutti quegli anni, dalla bella moglie bielorussa e sempre più spesso le aveva ripetuto che non si sentiva amato e rispettato. Poi, all’improvviso, aveva deciso di tornarsene al Cairo e di lavorare come consulente esterno per il Museo egizio, ma portò via con sé le due figlie più” grandi.

Olga, alla scoperta del rapimento delle figlie, dopo lo shock iniziale, aveva fatto di tutto per ten­tare di fermare il marito, ma nemmeno la denuncia alla polizia aveva sortito alcun ef­fetto; alla fine si era dovuta arrendere, impotente di fronte ad una situazione che si era dimostrata più” grande e più forte di lei. Bastava parlarci insieme pochi minuti per capire che era una donna con una forte personalità. Olga mi confidò, candidamente, che si sentiva ancora fortunata ad avere con se’ il piccolo figlio maschio e avrebbe dedicato tutto il suo tempo e le sue energie per farlo crescere nello stile occidentale.

Il piccolo Amir aveva un viso rotondo e gioviale, con due occhi grandi, neri ed espressivi, un’energia infinita e un insaziabile appetito; spesso lo avevo sentito ripetere una curiosa frase in russo quando, rivolgendosi a Olga, le diceva: “Мама, я хочу есть” (Mamma voglio mangiare).

Olga, con pazienza, cercava di esaudire tutti i desideri del suo piccolo principe preparandogli ogni sorta di prelibatezza e, la sera, nonostante la stanchezza per il lungo e duro lavoro, si prodigava per aiutarlo a finire i compiti da portare il giorno dopo a scuola. Quando la mamma era assente mi divertivo a guardare Amir scorrazzare per casa insieme ai suoi amici del quartiere; si divertivano tutto il tempo tra televisione, playstation e giochi di lotta, dimenticandosi completamente di dedicarsi allo studio e mettendo a soqquadro tutto l’appartamento. Il piccolo Amir aveva una grande passione per la musica e dopo la scuola percorreva alcuni chilometri a piedi per arrivare al conservatorio, che frequentava tre volte la settimana, per perfezionare il suo talento musicale.

La mamma, con grandi sacrifici, era riuscita a comprargli un pianoforte usato, con cui Amir si divertiva a inventare nuove melodie. Quando lo sentiva suonare al pianoforte Olga piangeva di nascosto, ma erano lacrime di gioia perché, in quelle occasioni, vedeva il figlio felice. Mi faceva una grande tenerezza questo “piccolo principe”, (tale era l’origine araba del suo nome Amir), forse perché mi ricordava mio figlio che ormai non vedevo più da tanti anni. Per lui ero diventato come un padre e qualche volta mi chiedeva di uscire insieme in strada per giocare a palle di neve o per farsi spingere con lo slittino giù dalle piccole collinette di ghiaccio che, nella notte, si erano formate all’interno del cortile.

Mentre riflettevo sulla forza d’animo della mia padrona di casa, mi decisi ad aprire la posta elettronica e il mio sguardo fu immediatamente catturato dall’inte­stazione di un’e-mail che, nell’oggetto, riportava un nome e una stringata frase, “Massimo, il tuo vecchio amico”. Rimasi completamente sorpreso, ma quella frase non mi lasciava alcun dubbio — era proprio Massimo, il mio vecchio compagno di liceo. Quel nome mi riportava con la mente al passato, ai tempi in cui tutto sembrava possibile, quando, a sedici anni, pensavamo di avere il mondo e il futuro nelle nostre mani. Era trascorso tanto tempo dall’ultima volta che avevo avuto sue notizie e adesso mi chiedevo il motivo di quella sua e-mail e di come avesse fatto ad ottenere il mio indirizzo di posta elettronica.

Questo era un vero mistero.

Solo poche e fidate persone avevano il mio indirizzo e-mail e potevano contarsi sulle dita di una mano. Con il mio isolamento, la lontananza fisica, pensavo di riuscire a proteggermi da tutto e da tutti, invece ora mi sentivo nudo, senza più” alcuna difesa. Quell’email aveva percorso migliaia di chilometri e adesso si trovava lì, davanti a me, che dallo schermo del computer mi invitava ad aprirla, come se mi dicesse dolcemente “e dai, leggimi, non te ne pentirai”. Ma era proprio quest’aspetto che mi faceva più paura, come se il contenuto di quella lettera mi avrebbe potuto riportare indietro nel tempo per riaprire ferite che pensavo di avere già rimarginato. Ero tentato di cancellare quel file, poi mi prese la solita angoscia e mi sentii avvolto, improvvisamente, da quella mia tipica indecisione che era stata la sola costante sgradita della mia vita. Per fortuna la curiosità prese il sopravvento e mi affrettai ad aprirla, sperando che contenesse solo belle noti­zie in modo da poter affrontare il resto della giornata con qualche linea di entusiasmo in più.

Cercavo di contare gli anni che erano trascorsi dal nostro ultimo incontro: tanti, troppi per essere ricor­dati — pensai. Non potevo dimenticare la spensieratezza di quegli anni di scuola, i famosi anni “80, dove tutte le speranze erano ancora intatte e dove tutto sembrava potersi realizzare. Lessi voracemente il contenuto di quell’e-mail: era proprio Massimo, che con il suo stile inconfondibile, misto d’ironia e tristezza, mi svelava finalmente il mi­stero di come avesse fatto a rintracciarmi.

Era capitato “per caso” sulla pagina Face­book di mia sorella e, come fulminato sulla strada per Damasco, era riuscito a mettersi in contatto, pregandola di darmi il mio indirizzo e dicendole che gli avrebbe fatto molto piacere riallacciare i vecchi rap­porti con me. Mi raccontava che non era riuscito a realizzare i suoi sogni di artista, di non essere di­ventato famoso come cantante, anche se fino alla fine ci aveva tanto sperato. Con la sua musica non era riuscito a trovare quel sound, quelle note giuste, che gli avrebbero permesso di scrivere il pezzo-capolavoro, quello che lo avrebbe proiettato nel firmamento della musica italiana.

Continuai a leggere e finalmente potevo conoscere quello che aveva fatto Massimo dopo la fine della scuola. Mi scrisse che aveva soggiornato a Milano per diverso tempo e questo solo grazie ad un compromesso fatto con i suoi genitori: ossia l’obbligo di frequentare con costanza e profitto il locale Conservatorio di musica. Il tempo era passato velocemente e nessun avveni­mento particolare era arrivato a sconvolgergli la vita di musicista, nemmeno un incontro fortuito, così come a volte succede nella vita. Alla fine la sua delusione era stata troppo grande e aveva deciso di fare ritorno a casa, di tornare al sud, in quella stessa piccola città di provincia dov’era nata la nostra amici­zia ai tempi del liceo. Aveva capito che, per realizzare il suo sogno, doveva percorrere un cammino troppo difficile, tortuoso, pieno di ostacoli e di compromessi, un cammi­no che, probabilmente, lo avrebbe condotto su di una strada senza uscita.

Ora lavorava come operaio in una fabbrica di occhiali, ma di tanto in tanto ancora si divertiva ad andare in qualche locale a suonare al piano bar e a raccontare agli ospiti qualche aneddoto della sua vita da artista vissuta nella capitale della musica italiana: Milano. Questo gli sembrava comunque un modo piacevole per trascorrere le serate e tenersi aggrappato al suo sogno, oltre che per arrotondare le magre entrate mensili. Nell’email si rammaricava che erano trascorsi così tanti anni dal nostro ultimo incon­tro e si diceva dispiaciuto per non aver avuto il tempo di frequentarmi anche dopo la scuola.

Mi allegava una sua fotografia dalla quale, a stento, riuscii a capire che fosse proprio lui: la sua attuale fi­sionomia contrastava con i miei ricordi giovanili, anche se poi, guardandola meglio, nei suoi occhi vedevo ancora quella scintilla di luce, di follia, che solo i veri artisti potevano avere. Concludeva la sua lunga lettera rivolgendomi una domanda finale, proprio quella da me tanto temuta, chiedendomi:” Robbè ma almeno tu sei riuscito a realizzare i tuoi sogni di diventare uno scrittore?”.

Per un attimo fui preso dal panico e mille pensieri, mille paure, si affollarono improvvisamente nella mia mente; una vocina mi supplicava di can­cellare quell’email, di dimenticarla e di fare in modo che tutto tornasse come prima. Ero totalmente confuso ma non potevo fare finta di niente, dovevo reagire in qualche modo. Tra quelle righe mi era parso di leggere una sua richiesta di aiuto e non potevo lasciare un amico in difficoltà.

Probabilmente anche Massimo aveva voglia di abbando­nare quella sua vita sempre uguale e monotona, senza prospettive per il futuro e, forse, aveva intenzione di fare esattamente come me: allontanarsi da tutto e da tutti e trovare un posto dove poter dare re­spiro alla propria mente di artista e sollievo all’anima.

Era giunto il tempo di fare i conti con le mie paure e dovevo avere il coraggio di affrontarle definitivamente; mi chiesi se quella non fosse proprio l’occasione giusta, quella che inconsciamente stavo aspettando e cercai di rispon­dergli nel modo più sincero possibile. Mi pesava molto dover confessare proprio a lui, al mio caro amico di gioventù, che avevo abbandonato definitivamente il sogno di diventare uno scrittore e che adesso conduce­vo una vita modesta, in completo isolamento. Mi rallegrava l’idea di potergli scrivere che ero riuscito a dare almeno una piccola soddisfazione ai miei genitori: avevo conseguito la sudata laurea in giurisprudenza. E” vero, si trattava di una magra consolazione che non mi avrebbe riabilitato ai suoi occhi, ma era pur sempre un piccolo successo in un mare di fallimenti.

Conclusi quella lettera allegando una mia foto recente e sfidandolo a riconoscermi, già immaginando la sua faccia e le sue risate di scherno, la sua tagliente ironia. Lo vedevo seduto in cucina, intento a sorseggiare il suo caffè mentre, a voce alta, diceva: “Molto bene, il ragazzo dai lunghi riccioli biondi si è trasformato in un uomo dalla fronte alta e dai pochi capelli, è diventato un cinquantenne imbolsito e depresso”. In tutto questo mi chiedevo se anche Massimo avrebbe intravisto nei miei occhi quella speranza, quel desiderio di avere un’ultima occasione.

Probabilmente fu quello il mo­mento in cui dentro di me cominciò a formarsi la convinzione che noi due, insieme, avremmo potuto realizzare i nostri sogni. Improvvisamente ba­lenò in me l’idea di unire i nostri due talenti, le nostre due passioni — la musica e la scrittura — per provare a compiere insieme un’ultima missione prima di poter dire, definitivamente “mi dispiace, ho provato, ma ho fallito”. Era un’idea strana, folle, ma come tutte le idee che nascono per caso aveva la sua base di ra­zionalità. In fondo non avevamo nulla da perdere se non quel poco di dignità che ancora ci restava.

Molte domande attendevano ancora una risposta ma adesso mi chiedevo se due persone così diverse potevano realizzare un progetto in comune: produrre un disco di successo di musica pop.

Non eravamo più” dei ragazzini e avevamo perso il nostro “fisic du role”, ma dentro di me ardeva ancora viva la fiamma della passione per la scrittura e avrei fatto di tutto per convincere Massimo ad accettare il mio invito.

Era tempo di agire e il lavoro adesso poteva aspettare ancora qualche minuto. Dovevo concentrarmi sulla risposta da inviare a Massimo e mi misi subito a scrivere al computer. Quando fui soddisfatto della lettera gli allegai la mia foto più recente, scattata da Olga durante quell’ultimo Natale, e mi affrettai a premere “invio”. Bisognava solo avere pazienza e aspettare che il tempo facesse il suo corso; molto presto avrei capito se quell’idea, quell’intuizione, avrebbe preso forma e vita.

Mentre pensavo a tutto questo, come in un flash back, mi tornarono alla mente gli anni di liceo, quelli vissuti come compagni di banco, dove nacque la nostra amicizia.

CAPITOLO SECONDO

GLI ANNI DEL LICEO

Fin dall’adolescenza mi chiedevo chi fossi in realtà, se avessi un vero talento e la capacità di realizzare tutti i miei sogni che all’epoca, per un ragazzo di sedici anni, sembravano ancora troppo grandi. Ogni giorno percorrevo a piedi la strada per andare a scuola, evitando di passare per il centro pur di camminare sul lungomare e ammirare quei bellissimi promontori della costiera Amalfitana.

Era soprattutto durante quelle primaverili mattinate di tiepido sole che li guardavo stagliarsi diretti contro di me, in tutta la loro potenza e maestosità. A volte mi fermavo su di una panchina e chiudendo gli occhi aspettavo che arrivasse quell’anelito di vento che trasportava la brezza marina del mattino e poi, come sempre, restavo incantato ad ascoltare il canto dei gabbiani che, in cerca di cibo, si tuffavano voracemente nell’azzurre acque del mare. In quei due chilometri, tra casa e scuola, nascevano e morivano mille idee, mille progetti e tutt’intorno sembrava rallentare come un film già visto alla moviola.

Immaginavo come sarebbe stato “figo” arrivare a scuola a bordo di una fiammante e nuova spider Alfa Romeo, tutta rossa, decappottabile e quale invidia avrebbero provato i miei compagni di classe nel sentire il rombo del motore salire di giri, sempre più forte, un rumore quasi assordante. Ma soddisfazione ancora più grande sarebbe stata vedere le ragazze più” carine della scuola fare la fila e mostrarsi pronte a tutto pur di poter salire su quell’auto e correre in giro per la città, per sentire l’ebbrezza della velocità e il vento nei capelli. Purtroppo per me quelli erano solo i pensieri di un adolescente che, intanto, continuava ad andare a scuola a piedi, mentre in quegli anni ’80 un semplice motorino, anche usato, avrebbe potuto fare la differenza tra uno “sfigato” e uno che “ci sapeva fare”.

Quei sogni, quelle illusioni, duravano solo il tempo di quel breve tragitto e poi avrebbe avuto inizio, come sempre, il tormento di quella giornata. Così come ogni giorno, anche quel lunedì mattina bisognava trascorrere cinque lunghe ore chiuso in una grande stanza al piano terra, insieme ad altri tredici disperati che, come me, avevano la sensazione di essere come dei prigionieri in attesa della libertà. Con passi sempre più lenti ormai mi avvicinavo inesorabilmente all’entrata della scuola; adesso potevo distinguere perfettamente il palazzone color rosso porpora mentre con lo sguardo controllavo gli altri studenti che, come me, svogliatamente, arrivavano alla spicciolata formando e dividendosi in piccoli gruppi di tre o quattro elementi.

Qualcuno fumava nervosamente, altri sembravano ancora assonnati, qualcun altro parlava ad alta voce e cercava di vantarsi della sua nuova conquista del sabato sera, avvenuta come sempre in discoteca, quasi che avesse piacere affinché tutti gli altri, oltre al suo piccolo gruppetto, potessero ascoltare e condividerne i particolari più piccanti.

Intanto osservavo se tra quei ragazzi ci fosse qualche volto noto, un compagno o compagna di classe con la quale fare due chiacchiere prima dell’inizio delle lezioni, ma non riuscii a scorgerne nessuno e sembravo, stranamente, essere arrivato in anticipo. Quel giorno dovetti restare ancora da solo per qualche minuto ed ebbi il tempo per continuare a fantasticare con la mente: mi chiedevo se non sarebbe stato un comportamento “rivoluzionario” se, quel lunedì mattina, tutti noi adolescenti, avessimo proclamato uno sciopero improvviso, magari adducendo come motivo l’insalubrità di quelle grandi stanze umide e fredde in cui eravamo costretti a stare per lunghe ore durante la giornata e dove, ormai sempre più spesso, era possibile notare anche i calcinacci che pendevano dal soffitto.

Mi chiedevo quand’era stata l’ultima volta che avevano provato a dare una sistemata o, almeno, una mano di colore.

Il povero bidello Gianni faceva quello che poteva, ma oltre alle pulizie generali s’interessava solo di cambiare qualche lampadina o sostituire le serrature delle porte delle nostre aule, che qualche buontempone aveva provato a divellere. Quel Gianni era un tipo davvero strano, aveva un aspetto tarchiato e corpulento e la statura più bassa della media, ma con delle grandi mani, ruvide e callose. Era evidente la sua origine contadina e, quando aveva del tempo libero, si divertiva a coltivare il piccolo giardino che si stendeva tutt’intorno al perimetro della scuola. Qualche volta, tra una lezione e l’altra, mi affacciavo dalla finestra al piano terra e mi divertivo a fare ambigui commenti sul tipo di ortaggi che avrebbe potuto coltivare durante la giornata.

Comunque Gianni era un tipo simpatico e non reagiva mai in modo sgarbato o violento ai nostri scherzi anzi, a volte ci invitava a prendere un caffè che era solito preparare nel suo stanzino, quello delle scope e dei detersivi. Con il tempo aveva saputo organizzarsi bene portandosi da casa un piccolo fornello da campeggio al quale aveva collegato una minuscola bombola da gas e con quello si preparava spesso da mangiare; non era raro respirare l’odore della carne arrostita che, dopo aver attraversato tutto il corridoio, giungeva in tutte le aule, compresa la nostra. All’ora di pranzo quel profumo diventava una vera tortura, mentre dovevamo aspettare ancora qualche ora prima di poter tornare a casa per mangiare. Dal preside all’ultimo dei professori tutti chiudevano un occhio per quei comportamenti poco “ortodossi”, ma Gianni sapeva farsi perdonare, perché era sempre gentile e disponibile con tutti.

Mi riportò alla realtà il crescente brusio delle voci dei ragazzi che nel frattempo avevano quasi riempito tutto l’atrio dell’entrata della scuola; decisi di sedermi sul piccolo muretto che mi avrebbe allontanato di qualche metro da quella “mandria”, che poteva dirsi mansueta solo all’apparenza. Adesso ero seduto in un posto considerato strategico ed ero sicuro che nessun mio compagno di classe, entrando, avrebbe potuto non vedermi. Anche da seduto potevo vedere quello strano cancello di ferro, rosso e nero, che per me segnava il confine tra la libertà e l’agonia di una giornata da trascorrere ad ascoltare lezioni spesso inutili. Tutti quei professori, messi insieme, non erano in grado di dirti o di spiegarti chi eri, in quale direzione andare o di orientarti nelle scelte future della vita. Tra le altre cose dovevamo imparare anche il latino, una lingua considerata morta, ed io riflettevo “ma se è una lingua morta ci sarà stato un motivo e perché resuscitarla proprio con noi, non sarebbe stato meglio insegnare un’altra lingua, magari l’inglese, che con il francese ci avrebbe fornito le basi magari per trovare un lavoro migliore e consentirci di fare delle esperienze all’estero?”.

Era evidente che non potevo immaginare la scuola se non come una gabbia, una fabbrica di nozioni, un posto tetro e ormai obsoleto, dove nessuno si curava delle idee di noi giovani che, in un futuro non lontano, saremmo stati la spina dorsale sulla quale si sarebbe poggiata la nostra Nazione.

Cosa fare delle nostre aspirazioni? Come assecondare la nostra voglia di conoscenza?

Eravamo una generazione che non aveva internet ne telefonini e spesso le nostre idee restavano confinate nei cassetti della nostra mente. Di quei cinque anni trascorsi al liceo non ricordavo neppure un episodio insolito accaduto come forma di protesta nei confronti di quel sistema scolastico.

Ricordavo solo che quel lunedì mattina cercavo una via d’uscita, forte era la tentazione di voltarsi e di tornare indietro.

Sì, ma per andare dove?

Certamente non a casa dove avrei trovato mia madre già pronta a minacciare chissà quale esemplare punizione al ritorno di mio padre dal lavoro.

Nemmeno volevo trascorrere l’intera mattinata da solo, seduto su di una panchina al lungomare a dividere il mio panino con i gabbiani. Alla fine di quel mio girovagare nella mente mi resi conto che, probabilmente, entrare a scuola era la scelta più saggia, il male minore.

Guardai l’orologio e solo pochi minuti mi separavano dal suono di quella “maledetta” campanella: l’avevo sempre immaginata come una “campana a morto” che salutava il carro funebre al termine della funzione sacra. Invece della campanella giunse al mio orecchio il suono di una voce familiare provenire dalle mie spalle, era una voce dolce e gentile che avrei riconosciuta ad occhi chiusi, tra mille altre. “Ciao Roberto, sono felice di vederti, allora ci siamo proprio tutti questa mattina?”. Mi voltai lentamente cercando di incrociare subito il suo sguardo e, in quel momento, la luce di due occhi grandi e azzurri illuminò subito il mio viso, così come un faro nella notte buia. Era Marina, la mia compagna di classe che mi veniva incontro sorridendo. Non aspettavo altro e noncurante di essere rimproverato, il mio sguardo cadde inesorabilmente sulla sua camicetta bianca sbottonata al punto che potevo quasi intravvedere il suo reggiseno. Le risposi con un sorriso mentre a stento riuscii a dirle “ciao”. La osservavo ormai da quasi cinque anni, sempre seduta in prima fila, nel banco centrale, accanto alla sua amica del cuore, Marta, sempre mi era mancata l’iniziativa e il coraggio di dirle quello che provavo, di confessarle tutto il mio amore.

Avevo cercato di custodire gelosamente questo mio segreto ma i miei comportamenti, i miei sguardi da “pesce lesso” ogni volta che la incontravo, avevano reso evidente a tutti quelli della mia classe che ero innamorato di Marina. Sembrava che tutti avessero conoscenza di quel segreto — tutti tranne Marina. Questo che mi suggeriva il suo comportamento, a volte freddo e scostante, alternato a periodi in cui sembrava avvicinarsi tanto quasi da farmi sentire il suo calore. Questo bastava ogni volta a riaccendere in me la fiammella della speranza, a farmi pensare che non tutto fosse perduto.

Qualche volta avevo provato a fare il “giro largo” provando ad avvicinare la sua amica Marta per cercare, con modi gentili, di farla aprire e confessare l’inconfessabile e cercare di capire i reali sentimenti di Marina per me. Fu tutto vano, Marta sembrava tenere i segreti anche meglio di una cassaforte in banca e non accennò mai a qualche pettegolezzo né rivelò mai le “confidenze” di Marina.

Questo mistero mi contorceva fino dentro l’anima ma era solo colpa mia se fino a quel momento non ero riuscito a dichiararmi apertamente con Marina; avevo il terrore di un suo “no”, da cui sarebbe scaturito una vera catastrofe per l’immagine positiva che ero riuscito a crearmi in tutti quegli anni, oltre al fatto che quel suo eventuale rifiuto mi avrebbe provocato non pochi imbarazzi verso i miei compagni di classe ogni volta che fossi arrivato a scuola. A volte immaginavo i loro sguardi divertiti e i commenti idioti. Il rischio che correvo era troppo grande e non volevo ne potevo assolutamente macchiare la mia reputazione, anche a costo di perdere Marina.

Anche per questo non detti nessuna colpa a Marta per la sua scarsa “collaborazione” ma anzi, dovevo solo ringraziarla per le tante volte che mi aveva tirato fuori dai guai. Molto spesso, durante le mie interrogazioni alla lavagna, grazie ai suoi suggerimenti ero riuscito a salvarmi per il rotto della cuffia. Noi tutti l’avevamo soprannominata “la nostra ultima speranza”. Marta era considerata il genio dell’intera scuola e non era per niente facile tenerle testa perché aveva almeno due lunghezze di vantaggio su tutti, sempre preparata su ogni argomento, anche quelli tradizionalmente più impegnativi.

Quella ragazza era la nostra fortuna, la nostra ancora di salvezza, sempre disponibile ad aiutare quelli che restavano indietro, soprattutto in quelle materie che molti di noi trovavano particolarmente difficili: il latino, la fisica e la matematica. Per la “nostra ultima speranza” quelle materie sembravano non avere più segreti ed era raro vederla commettere degli errori. Era accaduto sovente che, durante la lezione, correggesse il professore di turno, il quale non poteva fare altro che ammettere la “distrazione”, non senza mostrare un mal celato imbarazzo.

Adesso Marina era lì, davanti a me, e mi sentivo preso come da una strana eccitazione, mentre un fremito improvviso e tumultuoso mi colpiva ad ogni suo sorriso, ad ogni suo sguardo. Come sempre era incantevole e pareva sprigionare un mix di dolcezza e sincerità che le illuminava il viso; questo suo modo di fare mi apriva il cuore in due, come un apriscatole. Sentivo le pulsazioni andare a mille ma cercavo di mantenere una calma, almeno apparente; dopo aver raccolto tutte le mie anergie mentali cercai di comportarmi come un navigato attore che, giunto sul set, è pronto a dire la sua battuta. Quindi, distolsi lo sguardo dai suoi occhi e provai a balbettare: “Ciao Marina, come va questa mattina, immagino che avrai studiato tutto il giorno oppure ieri sera sei andata in giro a divertirti con le amiche?”. Mi veniva naturale farle quelle domande “trabocchetto” tanto era il desiderio di scoprire cosa avesse fatto il giorno prima, se avesse trascorso tutto il tempo sui libri di scuola o fosse uscita con qualcuno dei suoi amici.

Mi infastidiva questo mio sentimento di gelosia perché capivo di essere molto vulnerabile. Ma fu Marina che, inaspettatamente, venne in mio aiuto e rispondendo con tono deciso alle mie domande impertinenti, mi disse: “Purtroppo ieri sera niente divertimenti ne uscite, ma solo tanto studio con Marta perché oggi ci sono così tante interrogazioni che non avevo la testa per fare altro”. Aveva appena finito di concludere la sua frase che mi prese il panico — oddio le interrogazioni di italiano e latino — ma come avevo fatto a dimenticarle, come potevo stare seduto tranquillamente sul muretto e fare finta di niente. Marina notò subito il cambio di espressione sul mio viso, un misto di preoccupazione e rassegnazione, ma non riuscimmo a dirci altro perché arrivò la sua amica Marta a portarsela via, così come un falco cattura la sua preda. Provai a seguirle con lo sguardo ma presto si confusero tra la folla degli altri studenti.

Avevo sentimenti contrastanti, da un lato ero contento per le parole di Marina — era rimasta a casa tutto il giorno a studiare — ma adesso ero assalito dal pensiero delle interrogazioni ed era questo il problema più immediato. Bisognava inventarsi qualcosa e occorreva farlo in fretta perché ormai il suono della campanella si era fatto particolarmente acuto e insistente indicando, inesorabilmente, il “tutti dentro”. Era necessario escogitare un’idea vincente, magari realizzare uno scherzo particolarmente pesante, di quelli che, se scoperti, potevano procurarci delle note in condotta ma che avrebbero sicuramente ritardato lo svolgimento delle lezioni. Ecco, questa poteva essere la soluzione, avevo ancora tempo per coinvolgere qualcuno della mia classe che, come me, non aveva avuto voglia di studiare. Mi feci coraggio, in fondo si poteva ancora evitare il peggio quel lunedì mattina.

Purtroppo l’atrio della scuola si era già svuotato, così rapidamente che non ebbi il tempo di individuare nessun altro mio compagno. Avevo atteso troppo a lungo e così perduto l’unica occasione di salvezza. Quei pochi studenti che restavano fuori dal cancello, ancora indecisi se entrare oppure marinare la scuola, appartenevano ad altre classi e non servivano al mio scopo.

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