C'era la Nebbia ad Highgate

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La verità sull’autore di “Alice nel Paese delle Meraviglie”

Io non so se questo fatto sia vero; ciò che importa oggi è che questa storia sia stata raccontata e che qualcuno ci abbia creduto.

Jorge Luis Borges

Un incontro ad Highgate

Fu una vera fortuna che la Regina Mary d’Inghilterra non si trovasse a Londra all’inizio di Dicembre del 1952; aveva 85 anni a quell’epoca e soffriva di disturbi respiratori. Il 5 Dicembre, infatti, una nebbia densa e fredda avvolse la città: era cominciato quello che i londinesi avevano soprannominato “the big smoke”.

La temperatura si abbassò improvvisamente per effetto della nebbia; i londinesi alzarono il riscaldamento, quasi tutti scaldavano le case con il carbone: l’inquinamento dell’aria aumentò oltre ogni limite e la nebbia si fece ancora più fitta.

Entrava nelle case. I cinema dovettero chiudere i battenti perché la foschia impediva agli spettatori di vedere lo schermo.

Solo il 9 Dicembre la nebbia sparì; morirono circa 12.000 persone per malattie respiratorie, ma fortunatamente la Regina Mary si salvò.

Sotto lo shock del momento, il governo inglese varò una legge che vietava l’uso del carbone per il riscaldamento domestico; così oggi è raro che ci sia la nebbia a Londra.

Eppure in quel giorno di Febbraio c’era la nebbia ad Highgate; la climatologia è un fenomeno complesso che ammette delle eccezioni alle statistiche, in più Febbraio è di solito un mese meteorologicamente impietoso a Londra.

Le guide turistiche consigliano di visitare il vecchio cimitero ormai in disuso dal 1975. La maggior parte delle tombe tuttavia è molto più antica; hanno più di cento anni; non c'è più nessuno a ricordare chi portasse i nomi incisi sui monumenti; nomi e basta, tranne che per qualche celebrità, nomi anonimi, se si accetta la contraddizione; i corpi, le fisionomie, i tic, il tono della voce delle persone che li portavano sono scomparsi da qualsiasi memoria. La fotografia di qualcuno di loro è forse in vendita in qualche negozio d’antiquariati o, nei casi più fortunati, riposa in fondo ad una cassa in qualche soffitta.

Lì, ad Highgate, sono restati solo i nomi, 150.000 nomi.

Sulle lapidi più semplici, sui monumenti sovrastati da una folla di angeli, di croci celtiche che parlano d’eternità, di colombe della speranza e di colonne spezzate come la vita di chi muore, ci sono solo nomi, date, qualche volta una frase incisa sulla pietra. I cespugli e gli alberi, cresciuti per anni senza nessuno che se ne prendesse cura, assediano le tombe, le avviluppano, le incorporano lentamente.

Per qualche minuto, dopo aver varcato i cancelli di Highgate, ti aggiri come un bambino al luna park tra quei monumenti così eccezionali: angeli alti più di due metri, cani di pietra accovacciati sulla tomba del padrone, come se, cento anni dopo la sua morte, lo stessero ancora aspettando, file interminabili di sepolcri in stile egiziano.

L’eccitazione del meraviglioso ti fa quasi dimenticare di trovarti in un cimitero; la spudoratezza della grandiosità, il sentimentalismo senza vergogna apparente di certe scritte, l’ovvietà ripetitiva dei simboli ti fa inevitabilmente sorridere.

Più tardi, mentre il sole tramonta, i nomi si fanno vivi nella tua mente, penetrano silenziosi nella tua coscienza, mentre scorri le scritte sulle tombe, come se volessero dirti qualcosa, ammonirti timidamente, senza rancore, che una volta erano i nomi d’uomini e donne reali; non ti parlano dell’orrore della morte, piuttosto del fascino misterioso dell’abisso che separa il non esistere più dal non esser mai esistiti, di un’emozione che da sempre sta nascosta nel cuore d’ogni uomo, un ponte assurdo fra chi esiste e chi non esiste più. Se hai la fortuna che i nomi ti parlino, puoi finalmente vedere Highgate così com’è per davvero e provare simpatia perfino per i sepolcri in stile egiziano.

Ma è anche impossibile non farsi suggestionare da Highgate, che rimane pur sempre un cimitero.

Soprattutto dal 3 Marzo del 1970, quando la ITV ha messo in onda una serie d’interviste sul Vampiro di Highgate. La caccia al mostro sarebbe cominciata poche ore più tardi; i suoi organizzatori erano apparsi alla televisione. All’ora prestabilita, la polizia cercò inutilmente di opporsi alla folla scatenata che invase il cimitero alla caccia del mostro.

Tutto era cominciato all’inizio del 1967, quando due ragazzine, che stavano tornando a casa di sera, avevano visto attraverso i cancelli del cimitero alcuni cadaveri uscire dalle loro tombe.

Poco tempo dopo anche due fidanzati, che passeggiavano nei pressi di Highgate, in Swains Lane, uno dei luoghi preferiti dal Vampiro, lo videro; aveva un aspetto ripugnante, diabolico, si muoveva furtivamente su e giù per il cimitero.

Dopo le prime apparizioni cominciarono ad accadere fatti strani; furono trovati animali sgozzati, senza più una goccia di sangue nei poveri corpi martoriati, e, poco più tardi, la polizia scoprì una donna morta, in un lago di sangue, con la gola squarciata. Il Vampiro aveva colpito. La polizia negò drasticamente la sua esistenza.

Una tomba sospetta fu identificata ed esorcizzata, senza risultati. Il Vampiro fu visto addirittura in bicicletta oppure con gran cappello, probabilmente un cilindro; doveva in ogni caso essere un eccentrico, perché di tanto in tanto prendeva invece le sembianze di una dama, vestita di bianco.

L’anno successivo il Vampiro si fece più audace: apparve alle sette del mattino, fuori del cimitero ad una ragazza che si recava al lavoro. L’aveva gettata a terra con una forza tremenda. Portava un vestito nero, ed il volto era pallidissimo. Era svanito nell’aria davanti agli occhi esterrefatti della ragazza.

Ben presto si scoprirono delle linee di forza psichica che, partendo da Highgate, si diramavano sul quartiere; era lungo quelle linee che il Vampiro appariva più di frequente. Alla fine il corpo del mostro fu scoperto nella cantina di una casa disabitata nei pressi del cimitero; fu distrutto. Ma non ci si può giurare. Questo almeno era quello che avevano scritto i giornali, anche se può sembrare incredibile.

Quel giorno di Febbraio i lavori del congresso erano sospesi; sul programma stava scritto “giornata libera”; era suggerito di rivolgersi alla reception se si voleva visitare la città.

Ero vissuto a Londra per qualche anno; non avevo alcuna ragione di accordarmi alla folla di congressisti americani, ammucchiati di fronte all’albergo in attesa degli autobus panoramici.

Così ero andato ad Highgate; non credo ai Vampiri. Gli organizzatori del congresso mi avevano procurato il permesso per poter visitare anche la parte monumentale del cimitero. Avevo lasciato l’albergo nel primo pomeriggio dirigendomi verso fermata della metropolitana più vicina.

Alla stazione di Archway avevo trovato la nebbia; già a pochi metri dall’uscita i viaggiatori della metropolitana scomparivano nella foschia, che diffondeva le luci dei fari accesi delle auto; mi fermai indeciso: forse era meglio rinunciare alla visita, un tempo del genere non è adatto per aggirarsi in un cimitero.

La nebbia bagnava il selciato della strada e non si vedeva a più di qualche metro, ma ero a soli dieci minuti di cammino dalla mia meta, non avevo altri progetti per il pomeriggio, così mi ero deciso a proseguire.

Sono un professore di letteratura inglese non troppo giovane. Per molti anni mi sono dedicato esclusivamente allo studio dell’epoca vittoriana: un periodo assolutamente straordinario per un’infinità di motivi, ma soprattutto per le sue incredibili contraddizioni; il mondo stava cambiando ad una velocità davvero incredibile: naturalisti, geologi e biologi scoprivano ogni giorno qualcosa di nuovo, che contraddiceva le idee condivise per centinaia d’anni. Tutto questo accadeva in una società ufficialmente rigida, moralista, composta da individui attaccati alle tradizioni, ingessata nei suoi riti, regolata da un sistema di potere stranissimo, in cui democrazia incompiuta ed assolutismo indebolito si mescolavano in una mistura singolare e duttile, che reagiva un po’ a caso alle novità che emergevano ogni giorno.

Poi, piuttosto tardi per dire la verità, ne avevo avuto abbastanza della letteratura vittoriana ed ero passato ad altri argomenti, più salubri e meno contorti.

Ogni volta che mi avvicino a Highgate, però, so che sto per rincontrare i miei vecchi amici vittoriani, e la rappresentazione monumentale di tutti i loro luoghi comuni, le stranezze e le contraddizioni.

Un mondo, il loro, pieno di bizzarrie incomprensibili, ma soprattutto di spiegazioni assurde, d’infinite reticenze ed omissioni; le avevo scoperte a poco a poco, quando avevo cominciato a domandarmi quali verità si nascondessero dietro le versioni ufficiali dei fatti, avevo la sensazione crescente di non riuscire a grattare la superficie, costruita ad arte od inconsciamente da generazioni d’accademici. Ero sempre più inquieto, nervoso; mi pareva di essere continuamente sviato da congiurati inafferrabili, passavo giorni interi negli archivi a cercare qualche brandello delle verità nascoste che credevo di intuire. All’inizio sapevo cosa andavo cercando. Più tardi però mi ero accorto di non saperlo più; in ogni notizia mi sembrava di intuire un malefico coacervo di piccole e grandi insincerità che rendevano tutto opaco, come quando si è costretti a muoversi in un paesaggio nascosto dalla nebbia: era giunto per me il momento di abbandonare gli studi sulla letteratura vittoriana.

Quel giorno di Febbraio camminavo per i viali del cimitero cercando di riconoscere fra la vegetazione bagnata dalla nebbia i monumenti più singolari, ma la foschia nascondeva le tombe lontane dai viali, che trasformava in forme grigiastre, indistinte, seminascoste dal sipario frastagliato degli alberi e degli arbusti. Era difficile orientarsi.

La mia meta era la tomba di Gabriele Rossetti, il padre del famoso pittore Dante Gabriele Rossetti: era uno dei tanti esuli italiani che Londra aveva accolto a metà dell'800.

Un destino strano quello di Gabriele Rossetti; nessuno lo ricordava più tranne il paese natale, dove gli avevano eretto un monumento al centro della piazza principale; eppure aveva avuto come poeta qualche momento di notorietà ed una giovinezza piena di slanci ideali.

Era nato a Vasto, un paese del Sud d’Italia, nel 178; fin da bambino aveva scritto poesie, si era fatto un giovane brillante e nel 1814 il Marchese di Vasto aveva deciso di mandarlo a sue spese all’università di Napoli.

Lì divenne carbonaro, massone e rivoluzionario, finì per farsi condannare a morte dopo i moti del 1821, dovette fuggire da Napoli l’anno seguente, travestito da ufficiale della Marina Inglese, con l’aiuto dell’ammiraglio Graham Moore.

Emigrò a Malta sotto la protezione di John Hookman Frere, un diplomatico inglese che si era stabilito nell’isola. Due anni dopo, perseguitato dagli agenti dei Borboni, si trasferì definitivamente a Londra, dove morì nel 1854 paralitico e semi-cieco.

Qualche anno dopo il suo arrivo in Inghilterra aveva sposato Francesca Polidori, figlia di Gaetano, già segretario di Vittorio Alfieri, e sorella di John Polidori autore de Il Vampiro.

La storia di questo libro vale la pena di essere raccontata. John Polidori aveva studiato medicina ad Edimburgo, ma presto diventò medico personale e segretario di Lord Byron; tutto sembrava funzionare perfettamente quando, durante una vacanza in Svizzera del suo protettore assieme ad un gruppo di altri letterati, la compagnia si fermò in una villa sul lago di Ginevra dove, per scommessa, si sfidarono a chi avesse saputo inventare la storia gotica più raccapricciante. In realtà la sfida doveva essere fra Byron e Shelley; anche Polidori era presente e, poco tempo dopo, scrisse la novella Il Vampiro, che apparve nel 1819 sul “New Monthly Magazine”. Il direttore della rivista, probabilmente per errore, la attribuì a Byron, che protestò dichiarando di non essere in alcun senso l’autore di quel Vampiro; accusò però Polidori di plagio: quella storia l’aveva inventata lui, Byron, sul lago di Ginevra. Nel frattempo Goethe, che non sapeva nulla della diatriba, scrisse che quello era probabilmente il migliore lavoro di Byron. Così si può affermare che John Polidori abbia scritto quella, che secondo Goethe, era la migliore opera di Byron.

Byron licenziò Polidori, che morì più tardi, probabilmente suicida, nel 1821.

Se il Vampiro di Highgate fosse in realtà quello di Polidori oppure uno dei suoi numerosi epigoni che spuntarono come funghi negli anni successivi la ITV non l’ha mai chiarito.

Comunque nel 1831, dieci anni dopo la morte del cognato, Gabriele Rossetti fu nominato professore d’italiano al King’s College con l’aiuto anche di Sir Holland, il cui salotto, centro della politica dei Whigs, frequentava abitualmente.

Ma la sua fissazione intellettuale era, da buon massone, l’interpretazione del simbolismo esoterico nella Divina Commedia di Dante Alighieri.

Rossetti possedeva una cultura enciclopedica sull’esoterismo antico e medievale; Nel 1840, cercò di pubblicare a Londra gli ultimi volumi di una gigantesca sintesi di anni di ricerche: “Il Mistero dell’Amor Platonico nel Medioevo” in italiano, con l’aiuto finanziario di Sir Charles Lyell. Il libro fu effettivamente stampato, ma poi, riapparve Hookman Frere, quello che aveva raccolto Rossetti a Malta, e il libro fu ritirato dalle librerie.

La storia della mancata pubblicazione del libro di Rossetti è un vero puzzle. Sir Charles era un famoso geologo, professore ad Oxford, ed uno dei primi e più equilibrati sostenitori della teoria di Darwin con cui intrattenne un’intensa corrispondenza. Le sue scoperte scientifiche lo avevano messo di fronte alla evidente falsità del racconto della Genesi. In particolare Lyell aveva dimostrato che la terra non era stata affatto creata circa 5000 anni prima, come avevano calcolato i teologi astrologando sulla Bibbia.

Si convertì al darwinismo quando aveva più di sessant’anni e, nella sua opera The Antiquity of Man, sostenne apertamente la teoria evoluzionistica.

Lyell era stato anche professore al King’s College di Londra proprio negli anni in cui Rossetti aveva ottenuto il suo posto di professore di Italiano nella stessa istituzione. Fra i due era nata una solida amicizia tanto che Lyell fu perfino il padrino del figlio di Gabriele, Dante Gabriele Rossetti. Quasi certamente Lyell aveva ereditato l’interesse per l’opera di Dante dal padre, traduttore dall’italiano del “Convito” e della “Vita Nova “di Dante Alighieri. Ma il libro di Gabriele Rossetti non era una traduzione, neppure un commento letterario dell’opera dantesca; si trattava viceversa di un ponderosissimo trattato del simbolismo antico e medioevale. Lyell ne aveva finanziato comunque la pubblicazione delle 1774 pagine. Perché?

Ancora più enigmatico era stato l’intervento censorio di un personaggio importante come Frere.

Che il libro contenesse qualcosa di strano e inquietante, più delle analisi degli studiosi, lo dimostra il fatto che, subito dopo la morte di Gabriele, la figlia Maria decise addirittura di bruciare tutte le copie che rimanevano in casa.

Perché Lyell ne aveva finanziato la pubblicazione, e Frere ne aveva impedito la distribuzione?

Avevo cercato naturalmente di leggere “Il Mistero dell’Amor Platonico nel Medioevo”, ma presto avevo rinunciato, annoiato a morte dalle discussioni sulle simbologie antiche, sulla loro trasposizione nelle società segrete medioevali e nella massoneria. Quel che invece mi aveva colpito era come le poche pagine del libro di Rossetti, che ero riuscito a leggere prima di metterlo definitivamente da parte, contenessero molte delle idee dei grandi “maitres a penser” dell’epoca vittoriana e del suo celebre figlio in particolare.

Alla strana storia della mancata pubblicazione del trattato non avevo mai trovato una spiegazione, anche perché altre ricerche più importanti mi avevano preso ogni volta cominciavo a lavorarci sopra.

Di tanto in tanto me ne ricordavo; mi ripromettevo di riprenderla, e me ne dimenticavo di nuovo, distratto da faccende più urgenti. Ma ogni volta che capitavo a Londra, mi ricordavo di Rossetti e finivo per visitare la sua tomba ad Highgate.

Non si tratta di una sepoltura monumentale, solo di un pezzetto di terreno piuttosto defilato, stipato di un gran numero di piccole lapidi su cui stanno scolpiti i nomi dei suoi successori. Su di tutte si erge, ma si fa per dire, una lapide più chiara e più alta che ricorda il capo famiglia Gabriele Rossetti.

Con quella nebbia non era stato facile trovarla; le scarpe si stavano inzuppando mentre camminavo a tentoni nell’erba, cercando di riconoscere qualche punto di riferimento. Faceva freddo ed ero uscito con un impermeabile troppo leggero; cominciavo a rimpiangere di non aver messo i calzini di lana e le mie scarpe fillandesi, comperate in liquidazione a Minsk, capaci di tenere caldi i piedi nei climi più rigidi.

Avanzando dovevo spostare, con un brivido di freddo, i rami dei cespugli ricoperti da piccole gocce d’acqua che mi bagnavano le mani e le maniche dell’impermeabile.

Avevo già sbagliato direzione un paio di volte quando finalmente ritrovai la tomba di Rossetti.

Mi ero avvicinato, osservando ancora una volta quello strano modo di aggiungere, man mano che un membro della famiglia moriva, il suo nome sulla lapide; quando lo spazio sulla lapide era esaurito, ne avevano aggiunta un’altra posta orizzontalmente o verticalmente, secondo uno schema che dava l’idea dell’improvvisazione piuttosto che di un progetto coerente. Non avevo mai capito come fossero disposti lì sotto i corpi dei Rossetti, se esistesse una cripta sotterranea o se le bare fossero interrate una vicino all’altra.

Le prime domande che mi assalivano davanti al sepolcro di Gabriele Rossetti eran sempre le stesse: cosa aveva pensato Gabriele quando, ancora travestito da ufficiale della marina, guardava la costa italiana allontanarsi? Non era più ritornato. Aveva immaginato spesso il suo paese inondato dal sole estivo? Quale era secondo lui il senso di quel gigantesco trattato sul simbolismo? Cosa voleva dire che io potessi capire?

Era lì da dieci minuti quando qualcuno alle mie spalle disse “Buon pomeriggio signore”

Mi ero voltato di scatto: c’era un uomo alto e magro sul viale dietro di me.

“Buon pomeriggio” avevo risposto istintivamente, con un po’ di affanno per la sorpresa.

L’uomo se ne accorse: “L’ho spaventata? Se è così le chiedo scusa.”

Gli sorrisi: “No, un po’ sorpreso certamente; credevo di essere solo.”

“Lo era infatti quando sono arrivato – rispose – È naturale immaginare di essere soli in un pomeriggio come questo, ad Highgate.”

Aveva ragione; stavo in un luogo tetro e la giornata era orribile.

Lo osservai. Alto di statura, aveva un volto piuttosto allungato, sormontato da capelli grigi, folti e ondulati, che spuntavano da un lobbia decisamente fuori moda. Le sopracciglia spioventi ed un naso piuttosto lungo davano al suo volto un’aria triste. Le labbra erano lunghe e abbastanza sottili. La nebbia non permetteva di distinguere con chiarezza i colori,. ma avrei giurato che il lungo cappotto fosse di un colore scurissimo, forse nero, come i calzoni ed il panciotto, che si intravedevano sotto la sciarpa. Doveva avere circa 60 anni.

“Ogni Febbraio vengo a visitare questo luogo – spiegò avvicinandosi di qualche passo – Neppure io immaginavo di incontrare qualcuno.”

Ci eravamo presentati.

Mi diede un nome falso. Almeno quella fu la mia impressione, perché, a pensarci bene, non aveva avuto nessuna plausibile ragione per farlo. Ma ero certo che quello non fosse il suo vero nome. Non saprei dire esattamente perché, anche se oggi so per certo che quel nome era falso.

‘Non sarà – mi domandai per una attimo – il Vampiro di Highgate? È Pallido, vestito di nero.’ Ma decisi ovviamente che si trattava di un’idea sciocca; in quello momento non avevo alcuna prova che mi avesse sul suo nome; l’immaginazione può giocare strani scherzi ad Highgate in un pomeriggio di nebbia.

“La mia invece è solo una visita occasionale – risposi cercando di dimenticare le mie fantasie – Avevo un giorno libero; così ho deciso di fare un salto qui.”

“Ma la tomba della famiglia Rossetti non è certamente una delle attrazioni monumentali di questo luogo “obbiettò l’uomo.

Gli raccontai del libro di Rossetti, stampato coi soldi di George Lyell e mai distribuito per le pressioni di Hookham Frere.

Conosceva vagamente la storia; Gabriele Rossetti era stato un personaggio abbastanza noto a Londra, mi raccontò, aveva molti amici. “Mi pare che fosse amico perfino di Wilkie Collins, lo scrittore.” ricordò.

Continuammo a parlare del povero Gabriele per quasi mezz’ora; gli raccontai dei moti napoletani, e della sua fuga a Malta, della sua iscrizione alla massoneria e alla carboneria. L’uomo ascoltava con attenzione: gli sembrava di ricordare che ci fossero molti esuli politici a Londra; il governo li sosteneva più o meno apertamente, per evitare problemi con Napoleone III. “Molte volte il suo governo ha accusato quello inglese di ospitare i terroristi che preparavano gli attentati all’Imperatore.” precisò.

“Lei è uno storico?” gli domandai.

“No, non proprio – rispose con un’espressione enigmatica – ma conosco abbastanza bene quel periodo.”

Intanto aveva cominciato a piovere mentre la nebbia stava dissolvendosi, lasciandomi intravedere di nuovo, più lontano fra la vegetazione, gli angeli di pietra anneriti dal tempo.

“Si può dire che lei abbia per le mani un vero mistero; deve assolutamente risolverlo – concluse l’uomo di fronte a me – Hookham Frere e George Lyell erano personaggi di rilievo. Lyell poi era senza dubbio un uomo brillante.” Si interruppe un attimo, come per trovare le parole, ed aggiunse: “è proprio sicuro che si trattasse del geologo?”

Ero certo: si trattava proprio di lui.

“In ogni caso – continuò con l’aria perplessa – il geologo era un sostenitore dell’evoluzionismo, solo da vecchio però si è anche avventurato a sostenere apertamente le idee di Darwin.”

“Ed aveva visto giusto.” gli risposi.

Lui si guardò attorno senza insistere e cambiò argomento; “strane sepolture – cominciò – quelle dei Rossetti, sembrano disposte a caso, quasi alla rinfusa, senza ordine. Ha notato quella lapide posta orizzontalmente ai piedi di quella di Gabriele?”

Aveva ragione; ci avvicinammo assieme: c’era una lapide grigia appoggiata al terreno. Le scritte cominciavano stranamente con “anche”; seguivano alcuni nomi. Glielo feci notare; lui assentì: “da l’idea del succedersi delle generazioni, del loro dileguarsi, e un po’ -aggiunse – del fatto che la morte arriva sempre inaspettata, che nessuno crede fino in fondo nella propria finché non arriva; allora chi rimane aggiunge un nome su una lapide continuando a sognare che lui invece non morirà mai.”

Adesso stavamo l’uno di fianco all’altro osservando la lapide rovinata dal tempo, ricoperta in qualche punto dal muschio e dove la pioggia cadendo formava piccoli rivoli d’acqua che scorrevano lungo le lettere scolpite sulla superficie, prima di scendere oltre i bordi della pietra e perdersi fra l’erba.

“Ma è meglio – suggerì aggiustandosi la lobbia sul capo – non fidarsi troppo delle riflessioni che ci assalgono nei cimiteri; si finisce sempre per diventare troppo pessimisti.”

Mi resi conto di non portare il cappello; in realtà non l’ho mai portato. La pioggia stava scendendomi lungo il collo prima di tuffarsi sotto la camicia; cercai nella borsa il microscopico ombrello che tenevo sempre di scorta.

Nel buio, che stava ormai calando su Highgate, i cespugli stavano lentamente trasformandosi in una massa di ombre dense, prive di dettagli e, sopra di loro, gli alberi intrecciavano nel cielo le sagome scure dei loro rami spogli contro la luce giallognola dell’illuminazione stradale, diffusa dalla foschia dell’atmosfera. Mentre aprivo l’ombrello, l’uomo disse: “Ha notato che il primo nome dopo l’ “anche” è quello di Elisabeth Siddal. Forse ha sentito parlare di lei?

Se il marito, Dante Gabriele Rossetti non avesse fatto riesumare il suo cadavere, sette anni dopo la morte per recuperare le proprie poesie, di Elisabeth Siddal non sarebbe restato probabilmente nessun ricordo. L’avevano disseppellita proprio dove ci trovavamo in quel momento, di notte, alla luce delle torce. Aperta la cassa, un gruppo di quattro o cinque uomini aveva recuperato le poesie inedite che il marito aveva deposto, un attimo prima che la fosse bara chiusa. Qualcuno dei presenti (probabilmente un certo Howell) aveva raccontato che il corpo di Elisabeth era incredibilmente conservato, e che i suoi lunghi capelli rossi avevano continuato a crescere dopo la morte.

Così era nata la leggenda di Elisabeth. Qualcun altro aveva raccontato invece che il fascicolo delle poesie aveva dei buchi provocati dai vermi. Le due storie erano piuttosto contraddittorie, ma ormai la leggenda era nata.

Un poeta, amico di D. G. Rossetti, aveva scoperto qualche anno prima Elisabeth Siddal in un negozio di modista nel centro di Londra; l’aveva presentata ad alcuni amici pittori, quelli che più tardi passarono alla storia col nome di Confraternita del Preraffaeliti, ed Elisabeth aveva cominciato a posare per loro.

Poco dopo aveva conosciuto D. G. Rossetti. Aveva cominciato a posare solo per lui. Dopo una lunga, complicata storia d’amore, si erano sposati.

Ma, qualche anno più tardi lei era morta. Molti avevano sospettato un suicidio, ma la versione ufficiale parlava di morte accidentale per una overdose di laudano.

Dante Gabriele Rossetti pubblicò con successo i suoi inediti recuperati dalla tomba.

Il mistero sulle cause della morte si era sommato alla storia dell’esumazione, ed aveva fatto di Elisabeth Siddal una leggenda, ripresa anche da qualche scrittore di romanzi dell’orrore. Si diceva che la Siddal fosse una donna bellissima, cogli occhi azzurri o verdi e dei lunghi capelli rossi. Avevo trovato, sfogliando un libro di storia dell’arte, una sua fotografia: mi era sembrata piuttosto bruttina ed arcigna.

Questo era tutto quello che sapevo di lei quando avevo risposto “Si”.

Guardai l’uomo di fianco a me: ora il suo volto era immobile come quello degli angeli di pietra; fissava la tomba di Elisabeth in un silenzio assoluto come se io, il tempo e lo spazio non esistessimo più. Attesi per qualche minuto che tornasse alla realtà, che uscisse da quello stato ipnotico in cui sembrava essere caduto. Inutilmente.

Alla fine mi decisi: “si dice che fosse una donna bellissima”

Parve scuotersi, si voltò verso di me per un attimo con uno sguardo vuoto, tornò a fissare la lapide. “Dovrebbe vedere la sua fotografia nel libro di Violet Hunt; si tratta di una biografia intitolata La moglie di Rossetti. Immagino che lo troverebbe facilmente: non è un libro molto raro.” Doveva essersi reso conto di esser stato scortese a lasciarmi lì, impalato sotto la pioggia senza rivolgermi la parola per cinque minuti; si scusò; per farsi perdonare, mi raccontò una serie di aneddoti buffi e poco conosciuti sulla vita artistica di Londra all’epoca dei Preraffaeliti: di quando Algeron Swinburne fu scoperto a danzare nudo davanti a uno specchio da un suo amministratore, dell’attacco d’ira di Dante Gabriele Rossetti aveva letto per la prima volta Alice nel Paese delle meraviglie perché aveva riconosciuto in uno dei personaggi la sua parodia. “In realtà – si corresse – all’inizio quel libro gli piacque; solo più tardi, quando le droghe che assumeva regolarmente cominciarono ad offuscargli la mente, se la prese con Lewis Carroll.”

Ridemmo assieme sotto la pioggia che si stava facendo sempre più fitta. Guardai l’orologio; i cancelli di Highgate sarebbero stati chiusi fra poco più di un’ora.

Ma, d’un tratto si fece serio: “non è bene ridere dei morti proprio qui.”

“Lei crede che i morti ci ascoltino?” domandai sorpreso.

“Forse – rispose lui – forse. Dante Gabriele Rossetti ha comunque voluto essere sepolto altrove.”

“In ogni caso l’esumazione del cadavere di Elisabeth è stata eseguita di notte, proprio qui dove ci troviamo ora; a me è sempre serbata una porcheria da parte del marito, qualsiasi sia stato il motivo.” dissi.

“Rossetti era un uomo geniale ed equivoco; in quel periodo non stava troppo bene, aveva delle visioni ed i nervi gli stavano cedendo; – ammise. – molti sono restati inorriditi dalla sua decisione di fare dissepellire il cadavere della moglie, anche certe istituzioni si sono opposte.”

“Voleva recuperare le poesie che aveva sepolto assieme a lei.”

Volse le sguardo dall’altra parte, come se stesse cercando di individuare qualcosa fra i cespugli lontani, in fondo al viale: “non tutti lo hanno creduto – sussurrò- non tutti.” Mise le mani in tasca e si avviò lungo il viale.

“Vede ad ogni passo si scopre un mistero – ricominciò mentre lo raggiungevo – da quando ci siamo incontrati ne sono emersi almeno due: prima la strana storia del libro di Rossetti ed ora quelli che Elisabeth si è portata nella tomba; siamo circondati da eventi misteriosi in ogni momento dalla nostra vita, senza neppure accorgercene.”

Si era alzato un vento freddo e teso che minacciava di rovinare il mio ombrello di fortuna. Stavo chiedendomi dove ci stessimo dirigendo, quando l’uomo si arrestò; il volto era di nuovo immobile e il pallore lo faceva risaltare nel buio. Mi tornò alla mente il vampiro di Highgate; anche se non lo era, quell’uomo ne aveva certamente l’aspetto, tanto almeno da farmi sentire di nuovo a disagio. Ritornammo lentamente verso le tombe dei Rossetti.

“La storia è piena di spiegazioni che non stanno in piedi.” mi venne da dire.

“E nessuno sembra interessarsene – aggiunse lui – forse pochi credono a quelle spiegazioni, ma evidentemente si tratta di un dettaglio irrilevante.”

Raggiungemmo in silenzio il sepolcro di Elisabeth, ormai quasi invisibile fra i cespugli. Ero sempre più inquieto, infreddolito: avevo l’impressione di essere lentamente risucchiato in un’altra dimensione, che quell’uomo stesse trascinandomi in un mondo onirico, forse quello dei suoi sogni, o dei suoi incubi dove probabilmente viveva anche Elisabeth Siddal. Eppure il suo atteggiamento gentile, un’aria infantile e sincera dello sguardo comunicavano un senso assurdo di fiducia che mi faceva dimenticare l’ansia per quella situazione assurda.

Mentre si chinava sulla lapide per rimuovere le tracce di muschio, mi ricordò di cercare il libro della Hunt; fece scorrere l’indice sulle lettere che formavano il nome di lei. “Così si renderà conto di quanto era bella.”

Lo avrei fatto il giorno dopo.

“A Charing Cross lo troverà certamente.” suggerì rialzandosi.

Guardai di nuovo l’orologio; per me era tempo di andare.

“Aspetti un momento. – mi interruppe l’uomo prendendomi per un braccio – non se ne vada; ho ancora qualcosa da raccontarle a proposito di Elisabeth.”

Fui quasi preso dal panico quando sentii la sua mano stringersi attorno al mio gomito. Gli feci notare l’ora; Highgate stava per chiudere.

“Deve sapere un altro particolare sulla sua morte. – continuò lui senza darmi ascolto – Il coroner ha ufficialmente dichiarato che era stato un incidente: Elisabeth aveva preso per errore una dose eccessiva di laudano, un miscuglio di alcol ed oppio molto di moda in quell’epoca, ma molti credevano che si fosse trattato di un suicidio. Però – si interruppe per un attimo come se stesse riflettendo – Però c’era anche chi parlava di un omicidio.”

Avevo i piedi congelati, il mio ombrello di fortuna non riusciva più a coprirmi dalla pioggia che si era fatta più insistente; l’impermeabile era fradicio ed i cancelli del cimitero stavano per chiudere. “E chi sarebbe stato l’assassino?” domandai innervosito, liberando il braccio dalla sua stretta.

Rimase stupito dal mio gesto:”. In fondo nessuno sa bene cosa sia capitato ad Elisabeth quella sera; meglio lasciar perdere con questi discorsi. Ha ragione: è ormai buio e piove, ed io la trattengo con queste storie di morte. La prego davvero di scusarmi.” Aveva l’aria pentita.

Ci incamminammo assieme verso l’uscita; si voltò ancora una volta verso la tomba che era ormai completamente nascosta dai cespugli.

Mi stavo finalmente rilassando. Non avevo incontrato il vampiro di Highgate in un incubo: stavo semplicemente passeggiando con un uomo incontrato per caso, un po’ strano forse con quella sua fissazione su Elisabeth Siddal, ma anche interessante, curioso e stranamente indefferente al clima.

“Lombroso – riprese con un’aria rilassata – sosteneva che sono soprattutto le delusioni sentimentali a spingere le donne al suicidio.”

“Ah Lombroso; nessuno lo prende più sul serio.”

“Ma ha avuto molto successo in Inghilterra”

Lombroso è stato un criminologo. Ha scritto strani libri, come “La ruga del Cretino e Le anomalie del cuoio capelluto” o “Dante epilettico”. Aveva cercato senza posa di individuare quei tratti del viso e del corpo umano che dovrebbero denunciare le tendenze psichiche del soggetto e quelle criminali in particolare. I suoi discepoli lo avevano preso tanto sul serio da conservare in formalina la sua testa nel Museo di Antropologia Criminale di Torino. Ma poi il museo era stato chiuso e non si sapeva che fine avesse fatto la testa di Lombroso.

“Ma poi è finito sotto formalina al Museo di antropologia criminale di Torino.” risposi.

“È orribile – si scandalizzò – non lo sapevo.”

Si arrestò di nuovo.

La sua attenzione parve concentrarsi su un pezzetto di legno caduto al bordo del viale; mentre faceva scorrere lentamente la mano sulla guancia destra, alzò per un attimo lo sguardo, si grattò l’orecchio prima di tornare al suo pezzetto di legno marcio; adesso si stava strofinando il naso. Chiuse per un attimo gli occhi e sospirò profondamente.

“Lei – cominciò – si interessa di enigmistica?”

“In che senso scusi?” risposi imbarazzato.

“Parole incrociate, rebus, sciarade, cose del genere.”

Fino all’età di 15 anni, avevo comprato ogni settimana una rivista di enigmistica, prima che mi venisse a noia. “Perché me lo chiede?”

“Perché – rispose stringendo gli occhi – bisogna saper distinguere gli enigmi dai misteri.”

“E quale sarebbe la differenza secondo lei?” risposi, innervosito per essere trascinato in una discussione del genere sotto la pioggia, lungo il viale di un cimitero che stava per chiudere.

Spiegò: “mistero ed enigma non sono differenti in sé, piuttosto le due parole esprimono due atteggiamenti psicologici differenti: l’uso della parola mistero confessa una specie di rinuncia a comprendere, mentre l’altra, enigma, ammette implicitamente la possibilità di capire, dipanando, unendo, confrontando quel po’ che conosciamo, fino ad arrivare alla soluzione. Sta a noi scegliere se ci troviamo di fronte ad un mistero oppure se abbiamo un enigma da risolvere.”

Potevo anche essere d’accordo, ma non mi sembrava il momento per una lezione di semantica, almeno fino a quando non mi venne il sospetto che si trattasse di altro, che però non capivo; aveva smesso di fissare il terreno, con le mani nelle tasche del cappotto, si guardava intorno, sotto la pioggia, aspettando inutilmente la mia risposta che non veniva.

“Cosa posso aggiungere? – risposi finalmente incamminandomi di nuovo verso l’uscita – le sue definizioni sono perfette; semplicemente -conclusi voltandomi verso di lui – non capisco ancora perché mi abbia fatto quella domanda.”

Prese un’aria indifferente, come se adesso avesse fretta di andarsene: “Era solo una domanda ovvia; abbiamo parlato di misteri fino a cinque minuti fa.”

Eravamo arrivati ai cancelli di Highgate; li attraversammo e ci trovammo fuori, nella luce gialla della illuminazione stradale; una lunga fila di auto attendeva che un semaforo passasse al verde. I pochi passanti ci avevano osservato con curiosità mentre uscivamo dal cimitero.

Ci avviammo verso la stazione di Archway. La pioggia stava cessando; richiusi l’ombrello con un respiro di sollievo.

“In fondo Elisabeth e Gabriele sono dei personaggi quasi ignoti; tutti conoscono Dante Gabriele Rossetti, il pittore. – osservai – loro erano come dei satelliti che ruotavamo attorno a Dante.”

“Sta riferendosi a Dante Rossetti o Dante Alighieri?”

“A Rossetti naturalmente” risposi sorpreso.

“Credo che Gabriele non abbia scelto per caso quel nome per il figlio.”

“E lui, per gratitudine, ha dipinto Beatrice tutta la vita. A proposito -ricordai – nel suo trattato Gabriele scrive che Alighieri era un cavaliere templare.”

“Davvero?” rispose distrattamente.

“Anche ai tempi di Rossetti, se ne parlava spesso a Londra; l’interesse per tutti gli aspetti del medioevo era molto forte.”

“Senza dubbio -annuì – in ogni campo: letteratura, pittura, perfino l’architettura; a Oxford hanno perfino costruito un museo di storia naturale in stile medioevale.”

La strada era in discesa; all’incrocio successivo dovemmo fermarci per attendere il verde.

Camminava velocemente, ora aveva l’aria di un uomo in carne ed ossa anche se la sua figura stonava con le vetrine illuminate che scorrevano dietro di lui, i passanti che incrociavamo scendendo verso Archway, le auto che correvano sulla strada. Forse era semplicemente l’effetto dei suoi abiti fuori moda, ma non potevo giurarci. Mi accorsi che zoppicava leggermente.

I templari evidentemente non lo interessavano, ma non potevo dargli torto.

Il mio compagno avanzava con l’aria rilassata di chi ha portato a termine una missione importante; il tono della sua conversazione era disteso e mondano, come se la tensione che l’aveva attanagliato fino a quel momento si fosse dileguata. Mi domandò del congresso: “c’erano stati interventi interessanti?

“Io studio solo Burton e Sterne, ma sembrano completamente dimenticati, mentre decine di conferenze sono dedicate a Tennyson; il secolo dei lumi sta scomparendo all’orizzonte della critica letteraria.”

“Perché Tennyson le sta antipatico?”

“Se non sappiamo neppure dare un nome ai sentimenti che proviamo, comprenderne i dettagli e le sfumature, non riusciamo neppure a comprendere noi stessi, a distinguere le ossessioni dalle passioni; tutto diventa terribilmente serio, tragico e, ovviamente, misterioso, trascendente, ma in un senso triviale. Burton e Sterne non erano caduti in quella trappola. Forse è per quello che non attirano più nessuno – spiegai – solo il comico esprime compiutamente una visione tragica dei fatti, ma almeno ci fa ridere.

Si arrestò in mezzo al marciapiedi, sistemandosi la lobbia completamente inzuppata dalla pioggia, “Non le pare di essere un po’ troppo categorico? – esclamò – in letteratura c'è spazio per tutto, anche per poeti come Tennyson o come il suo Leopardi.” Nella sua espressione mi parve di cogliere come un’aria di superiorità, una flemmatica saggezza che mi aveva dato sui nervi, anche perché quel che aveva detto era una ovvietà.

Ripresi a camminare senza aspettarlo; mi raggiunse subito, in silenzio. Ormai eravamo a pochi passi dalla stazione della metropolitana. Lui continuava a piedi fino alla prossima fermata dell’autobus. Era ora di salutarci. “La chiamerò in albergo – promise – così potrà spiegarmi perché Tennyson le sta così antipatico. Ma può chiamarmi anche lei se ha un pomeriggio libero.” Mi porse la mano ed un pezzetto di carta su cui aveva scritto un numero di telefono senza togliersi i guanti. Anche quelli erano inzuppati.

La foto di Elisabeth

La lobbia, il lungo cappotto scuro e la sciarpa facevano subito pensare ad un conservatore, un conformista un po’ fuori moda. Non era tuttavia solo il modo di vestire a suggerirlo; anche tutto il suo atteggiamento; la flemma nel parlare, la sensazione che trasmetteva di un profondo distacco dalle cose, suggerivano un attaccamento profondo ai valori del passato. Quando ne parlava si intuivano dei legami potenti ed inflessibili che lo legavano ad esso, legami più forti del gusto o dell’interesse intellettuale.

Perchè andava ogni anno a Febbraio a visitare quelle tombe? Anzi quella tomba: quella di Elisabeth Siddal.

‘C'è gente del genere – riflettei versando nell’acqua l’intero contenuto del flacone di bagnoschiuma – come gli ammiratori di Elvis Presley, oppure quelli del Conte di Montecuccolo, che ha fermato l’esercito turco alle porte di Vienna: ogni anno vanno in pellegrinaggio alla tomba dei loro miti, niente di inverosimile.

‘Forse – conclusi lavandomi la schiena con la spazzola – quell’uomo è uno delle rare persone affascinante dal mito, non proprio popolarissimo, di Elisabeth Siddal. D’altra parte anch’io faccio i miei pellegrinaggi, anche se meno regolari, alla tomba di Gabriele Rossetti.’

Mi davo queste risposte senza però crederci troppo; erano solo risposte possibili, sensate, ma che non tenevano conto delle mie impressioni reali. Lui era legato a quella donna da qualcosa di più profondo e concreto che non riuscivo ad immaginare. Quando si era chinato sulla lapide della tomba per togliere le macchie di muschio avevo riconosciuto le mosse di un cordoglio intenso, doloroso, di un amante davanti al sepolcro della sua donna. Questo era ciò che avevo visto e che non riuscivo a spiegarmi. Assieme all’altro fatto: che mi avesse dato un nome falso.

Così riflettevo disordinatamente nella vasca da bagno.

Per quasi un’ora avevamo conversato senza che lui dimostrasse alcun disagio per la pioggia che aveva preso a cadere. Molti londinesi se ne vanno in giro in maniche di camicia d’inverno, come se il termometro non contasse nulla, ma quel signore mi era sembrato singolarmente indifferente al clima terribile del pomeriggio.

In ogni caso si trattava di una persona molto interessante, evidentemente dotato di una notevole cultura; qualcuno che intendevo rincontrare. Appena rientrato in albergo avevo annotato il suo numero sull’agenda.

Accendendo una sigaretta dopo aver indossato l’accappatoio, mi ero ricordato di un altro particolare: quando avevo citato Dante, mi aveva domandato se intendessi parlare di Alighieri o di Rossetti; molte delle pagine del trattato esoterico di Gabriele Rossetti erano dedicate ad Alighieri. L’uomo di Highgate doveva saperne di più su quel testo di quanto non mi avesse detto. ‘Magari – avevo pensato- può darmi qualche indicazione per venire a capo di quello stupido dilemma sulle vicissitudini del Il Mistero dell’Amor Platonico nel Medioevo.’ Non avevo invece capito perché mi avesse domandato se Charles Lyell fosse un geologo. Ovviamente lo era.

Nelle incredibili peripezie del trattato di Rossetti il ruolo di John Hookman Frere era il più strano. Non che avessi fatto ricerche approfondite, ma insomma quell’uomo aveva raccolto Rossetti in fuga da Napoli, poi l’aveva aiutato a raggiungere Londra; aveva elogiato Rossetti e si era dichiarato apertamente suo amico, ma anni dopo aveva impedito la distribuzione del trattato, già finito di stampare coi soldi di George Lyell. Per quanto ne avevo capito, Frere apparteneva all’establishment governativo ed era, come Rossetti, un massone. Ma di lui non sapevo molto. Su Lyell, geologo famoso e moderato evoluzionista, era stato assai più facile raccogliere qualche informazione. Mi ero fatto l’idea di un uomo intelligente e schietto, soprattutto quando mi era capitato, leggendo un suo libro, di trovare la frase “If Man was made in the image of God, he was also made in the image of an ape”. Si trattava della citazione di un altro autore, ma non c’era dubbio che quella fosse anche la opinione di Lyell.

Ora però quell’angolo di Highgate serbava anche il ricordo di un altro mistero, quello della morte e della strana esumazione di Elisabeth Siddal. Nelle mie visite precedenti avevo appena notato il suo nome sulla lapide adagiata sul terreno, ma ora l’immagine della esumazione notturna, alla luce delle torce, che doveva essersi per forza svolta lì dove avevo incontrato il mio nuovo amico, stava infiltrandosi nella mia mente. Come era davvero morta Elisabeth? Perché quella balorda esumazione? E la storia dei capelli che avevano continuato a crescere anche dopo la morte.

Mi stesi sul letto. Guardai l’orologio: era tempo di dormire. Dovevo essere rimasto nel bagno per quasi due ore; l’indomani il congresso sarebbe ripreso alle nove. Stavo per addormentarmi quando, ripensando all’incontro del pomeriggio, mi ricordai di John Polidori e del suo libro.

Subito dopo la moglie di Shelley si affrettò a scrivere “Frankestein, o il moderno Prometeo” che ebbe certamente maggior successo del “Vampiro” di Polidori. Attorno a quel angolo di Highgate si aggirava un ridda di fatti misteriosi e piuttosto gotici, cadaveri dissepolti, morti misteriose, esumazioni assurde, tutti tipicamente vittoriani.

Il mattino successivo, senza sentirmi troppo in colpa, avevo deciso di saltare la sessione mattutina del congresso. Dopo l’esplosione delle comunicazioni via internet e l’invenzione delle linee aeree low-cost, i congressi si sono ridotti ad una forma di ritualità abbastanza inutile. Mi interessava trovare al più presto il libro della Hunt. Charing Cross non era lontana e lì, nei numerosi negozi di libri antichi sarebbe, stato forse possibile trovarlo.

Al secondo antiquario lo scovai: stava in uno scaffale di libri vecchi ma non rari, in mezzo a ristampe di biografie di uomini non troppo famosi e raccolte di lettere. Costava poco e l’avevo comprato. Nello stesso scaffale trovai anche una biografia di Dante Gabriele Rossetti scritta dal fratello. Era poco costoso, comperai anche quello prima di tornare in albergo.

Casa mia è stipata di libri più o meno antichi. Adoro la loro rilegatura solida, la carta di buona qualità e la facilità con cui si lasciano sfogliare e rimangono aperti ad una certa pagina quando li appoggi alla scrivania per andare a berti un caffé. Non si richiudano insulsamente come i libri di oggi, sono pazienti e disciplinati, restano ad aspettare, ben aperti, il tuo ritorno. Non devi cercare daccapo la pagina che stavi leggendo.

“Chissà quando è stato aperto l’ultima volta, e da chi?” è una domanda che nasce spontanea quando comincio a sfogliarne uno appena acquistato. Spesso trovo nelle prime pagine la firma del vecchio proprietario, scritta a penna con una calligrafia tutta svolazzi e riccioli; così la domanda “chi era quest’uomo?” diventa più pressante senza la minima speranza di trovare una risposta. Immagino signori con tanto di favoriti, portasigarette d’oro o d’argento, monumentali stilografiche piuttosto propense a perdere l’inchiostro. ‘Cosa pensava – mi chiedo – quell’uomo quando, tornato dalla libreria, ha aperto questo libro?’ Capisco perfettamente che sono domande oziose. Ma me le pongo ugualmente.

Alla terza pagina di La moglie di Rossetti c’era una foto di Elisabeth Siddal, la riproduzione di un dagherrotipo anonimo. Portava un vestito a sottili righe verticali: era bellissima. Il mio amico di Highgate aveva ragione, più di quanto avessi immaginato.

Tecnicamente l’immagine non era un gran ché, ma il volto di Elisabeth, di profilo, con gli occhi chiusi, volto dolcissimo, abbandonato, secondo la moda del tempo, pensosamente sul palmo della mano era meraviglioso.

Ero rimasto a guardarlo per qualche minuto, poi avevo continuato a sfogliare il libro della Hunt.

All’ora di pranzo ero sceso. Mi ero seduto con un paio di colleghi ed eravamo rimasti al tavolo fino all’inizio della sessione pomeridiana del congresso. La sera avevo deciso di saltare la cena per poter leggere i miei nuovi libri.

Alle 9.30 del mattino successivo stavo di nuovo dirigendomi di nuovo verso Charing Cross. Appena sveglio avevo scorso il programma del congresso. Gli interventi di quel giorno non mi interessavano.

Sotto la doccia decisi di tornare a Charing Cross. Il tempo era magnifico. Subito dopo la colazione, avevo lasciato l’albergo e mi ero incamminato

Avevo sedici anni, la prima volta che ho messo piede in quella strada. L’ultimo tratto del viaggio da Lille a Calais l’avevo percorso su un treno a vapore. Arrivato all’imbarco dei traghetti, un facchino francese aveva raccolto il mio bagaglio facendomi notare il numero scritto su una placca d’ottone cucita al suo berretto. A Folkestone un facchino inglese, con lo stesso numero stampato su un placca identica, me l’aveva riconsegnato. Ero arrivato a Victoria verso le diciotto; il cielo era coperto da nubi grigie e basse; gli odori, i colori e i rumori della città erano nuovi per me.

Due giorni dopo, sistemato nella casa di certi amici ebrei di nome Rosenberg, avevo preso la Piccadilly Line ed ero sceso a Charing Cross, con pochi soldi in tasca; avevo comperato solo una vecchia edizione del The Royal Mail Coach di De Quincey, con una copertina rosa

Dopo una mezzora, con una decina di carte di credito nel portafoglio invece delle poche sterline che allora dovevano bastarmi fino al vaglia postale successivo, mi ritrovai davanti al negozio dove avevo trovato la biografia della Siddal.

Aprii la porta ed entrai stando attento al gradino in cui ero inciampato il giorno prima; l’inconfondibile aroma dei libri usati impregnava il locale, illuminato da lunghi tubi al neon appesi al soffitto basso. Alcuni clienti si muovevano fra gli scaffali di legno chiaro. Si arrestavano davanti ad uno di essi; toglievano un libro da un ripiano e lo sfogliavano. Poi lo rimettevano al suo posto riprendendo le loro ricerche. In fondo al negozio, un commesso stava impacchettando due volumi per un cliente..

Di fronte allo scaffale che copriva la parete di destra, scorsi l’uomo di Highgate.

Portava un cappotto scuro e la stessa anacronistica lobbia. Scorreva con lo sguardo un libro che teneva fra le mani.

La tentazione di lasciare immediatamente negozio era stata forte; quel secondo incontro casuale, due giorni dopo Highgate, mi era istantaneamente sembrato una coincidenza inquietante. Mi ricordai del falso nome.

Avevo già messo la mano sulla maniglia della porta quando lui, come se avesse intuito la mia presenza, alzò lo sguardo dal libro e mi fissò. Abbassai la maniglia, ma era troppo tardi; lentamente un sorriso si disegnò sul suo volto e, con un gesto della mano, fece segno di riconoscermi.

Non posso continuare ad usare faticose perifrasi come “il mio nuovo amico o “l’uomo di Highgate”. È meglio, per ragioni pratiche soprattutto, inventargli un nome. Ora sono certo che quello che mi aveva dato era falso; posso inventarne uno a mio gusto. Lo chiamerò Charles. Sarebbe inutile inventare anche il cognome.

“Caro amico – cominciò porgendomi la mano – che coincidenza trovarci qui. Se calcola la probabilità che due persone si trovino per caso nello stesso luogo e nello stesso istante in una città come Londra, troverà un numero incredibilmente piccolo”.

Si interruppe e riprese “Ma non si ponga troppe domande, in fondo anche gli eventi più improbabili si realizzano qualche volta, altrimenti sarebbero eventi impossibili.”. Poi, indicando il libro che teneva fra le mani, aggiunse “stavo scorrendo una biografia di John Ruskin.”

“Non gode delle mie simpatie”

“Neppure io l’ho trovato simpatico. Era convinto di sapere cosa fosse l’arte, di distinguere un artista a prima vista. Credo che qualche volta si sia sbagliato.” Poi aggiunse: “Sa che era un grande ammiratore di Dante Gabriele Rossetti, e che trovava Dante Alighieri addirittura superiore a Milton?”

Ricordavo vagamente l’amicizia fra Rossetti e Ruskin, ma non sapevo che ammirasse Alighieri fino a quel punto.

“Era probabilmente un massone, come Gabriele Rossetti e come suo figlio – esclamai. Come Hookham Frere.”

Ero profondamente turbato, imprigionato in una situazione senza senso: non era possibile che lui si trovasse lì, in quel negozio mentre io stavo entrando, che avesse sollevato lo sguardo un attimo dopo che avevo varcato la soglia; questi eran dettagli che lui aveva trascurato quando aveva parlato di probabilità.

Secondo Charles in quell’epoca era più un’abitudine quella di iscriversi alla massoneria, che una vera scelta ideologica. “Era spesso un obbligo sociale per i personaggi in vista” aggiunse.

Non sapevo quasi nulla della massoneria, tanto meno di quella vittoriana. Semplicemente non avevo mai capito perché tutti, autori e critici, anche moderni, non ne parlassero mai, tanto più se era diffusa come sosteneva Charles.

“Proprio perché era cosi diffusa non valeva la pena di parlarne” rispose.

“Così – esclamai – chi come me della massoneria vittoriana non sa nulla – è condannato a non riconoscere per tutta la vita i riferimenti alla simbologia massonica. Oppure deve leggersi i cinque volumi del trattato di Gabriele Rossetti: un’ impresa noiosissima e snervante.”

Aveva sorriso ancora una volta: “certo le leggende massoniche sono un po’ strambe. Penso comunque che dovrebbe approfondire le sue ricerche su Hookham Frere.”

Per il momento sapevo solo che era stato un diplomatico ed un funzionario importante del governo inglese. Ad un certo punto della sua vita si era ritirato a Malta con la famiglia. Era stato membro della loggia massonica locale di San Paolo e San Giovanni. Aveva accolto Gabriele Rossetti a Malta e l’aveva aiutato a trasferirsi a Londra due anni dopo. “Il Mistero dell’Amor Platonico nel Medioevo riguardava quasi esclusivamente le leggende massoniche dunque i motivi per l’opposizione di Hookham Frere alla sua pubblicazione dovevano riguardare quell’aspetto. Questa era almeno l’idea che mi ero fatto.

Mi domandò se speravo di scoprire un giorno la verità. Ci speravo sempre meno.

“Lei proprio non riesce a leggere quel libro?

“No, almeno fintanto che sarò sano di mente” avevo risposto.

“E allora non le resta che costruire un macchina per viaggiare nel tempo. Altrimenti la verità le sfuggirà in ogni caso”

“Mi basta una spiegazione plausibile”

“Allora, credo, l’ha già trovata.” concluse risistemando la biografia di Ruskin nello scaffale. Mentre scorreva i titoli del ripiano più alto, mi domandò senza voltarsi “Ha potuto vedere la foto della Siddal?”

“Vede Charles, – cominciai osservandolo attentamente per spiare anche un minimo cambiamento d’espressione nel suo volto pallido – in realtà le coincidenze sono più di quelle che lei ha citato un attimo fa, perchè quella foto, il libro della Hunt intendo, l’ho trovato ieri, proprio in questo negozio. Indovini dove stava?”

“Come posso saperlo? – rispose con un espressione ingenua e sorpresa.

“Si figuri che stava proprio nello scaffale di fronte a lei. -esclamai – eccole un’altra coincidenza. Non le paiono un po’ troppe?”

“Incredibile!” esclamò spalancando gli occhi mentre si toglieva la lobbia; ma un attimo dopo, come preso da una nuova idea, sorrise:” Ah ecco, forse lei sta scherzando.”

Adesso ero imbarazzato; “niente affatto, il libro stava proprio lì; ora tocca a lei darmi una spiegazione?”

Avevo parlato senza pensare; lui me lo fece notare subito: “perché io e non lei? In fondo io stavo già qui, sfogliando tranquillamente una biografia di Ruskin, che non trovo particolarmente simpatico, quando lei è entrato.”

Forse ero arrossito in quel momento. Lui aggiunse, rimettendosi la lobbia in testa e togliendo i guanti dalla tasca del cappotto: “e poi, mi perdoni, ma cosa c’entro io se lei ieri è venuto proprio qui a cercare il libro della Hunt?”

Mentre tentavo di riflettere, Charles aggiunse con aria divertita: “Le voglio raccontare un episodio reale riportato da Jung in una sua lettera a Barret: ad un fumatore di pipa svizzero di nome Fritz, la moglie regalò, il giorno del suo compleanno, una nuova pipa. Terminato il pranzo, Fritz decise di fare una passeggiata; arrivato in uno dei tanti parchi ordinati della sua città svizzera, si sedette su una panchina per provare la nuova pipa. Stava aspirando le prime boccate di fumo, che sono notoriamente pessime, quando un altro uomo gli si sedette di fianco. I due si osservandosi reciprocamente con una discrezione svizzera, si resero conto di star usando esattamente lo stesso modello di pipa, non poterono fare a meno di scherzarci sopra: si trattava di una strana coincidenza. Ma quello era solo l’inizio della storia: scoprirono di festeggiare il compleanno lo stesso giorno, e di aver ricevuto entrambi lo stesso modello di pipa in regalo dalle loro mogli. E finirono per scoprire di chiamarsi entrambi Fritz..”

Non aggiunse altro e rimase ad aspettare un mio commento.

Visto che non rispondevo, riprese: “ha avuto il tempo di leggere il libro della Hunt.”

Mi ero anche sforzato di leggerlo, ma lo stile era faticoso e le informazioni interessanti distribuite a caso in una marea di dettagli inutili.

Mandai al diavolo tutti i miei ragionamenti sulle strane coincidenze di quell’incontro in libreria; la storia dei due Fritz, che si erano realmente incontrati nello stesso parco, eran nati nello medesimo giorno dell’anno, e le mogli avevano scelto come regalo di compleanno lo stesso modello di pipa, aveva vanificato i miei sospetti.

“Aveva ragione – risposi ancora sconcertato dal racconto dei due Fritz – Elisabeth Siddal era una donna bellissima. La foto, se ho capito bene, è la riproduzione di un dagherrotipo dell’epoca, apparentemente anonimo.”

“Certo. Nessuno sa chi sia l’autore.”

“È un peccato. Lei lo conosce per caso?”

Non rispose e ricominciò ad osservare i libri nello scaffale.

“Ho letto invece il verbale dell’inchiesta sulla morte della Siddal. Sta in una appendice in fondo al libro. -dissi – contiene diverse stranezze.”

Una sera del Febbraio 1862, Dante Gabriele Rossetti e la moglie avevano cenato in un ristorante di Leicester Square assieme al poeta Algeron Swinburne. Erano rientrati abbastanza presto; Elisabeth era andata a dormire mentre il marito era uscito di nuovo e, rincasando verso le 11.30, l’aveva trovata in coma. Su un tavolino, di fianco al letto, c’era una fiala di laudano. Aveva dato l’allarme; un medico era arrivato quasi subito ma, nonostante le cure, Elisabeth era morta alle 7 della mattina successiva.

“Sa cosa sia esattamente il laudano” domandai

“Una miscela di alcol ed oppio. – rispose – Veniva usata contro il dolore o come sonnifero. Era assai diffuso. Evidentemente molti finivano per assuefarsi. Lo si poteva comperare un po’ ovunque senza nessuna ricetta.”

“Secondo il Coroner ne aveva preso troppo, per errore.”

“Ce ne voleva molto per morire” aveva precisato Charles.

Cosa volesse significare con quel commento non era chiaro; in ogni caso dal verbale dell’inchiesta non era possibile capire esattamente quanto laudano avesse preso la Siddal. Non si facevano autopsie nel 1862; tutta l’inchiesta sembrava essere stata effettuata con grande superficialità. Lo dissi a Charles che intanto era passato ad un altro libro.

“Ah si. Mi dica: cosa non la convince?”

Rossetti aveva dichiarato di aver trovato la fiala di laudano su un tavolino, vicino al letto della moglie. Ma un altro testimone, Sarah Byrril, la figlia della domestica, chiamata immediatamente al capezzale di Elisabeth, ha giurato di aver visto la fiala vicino al cuscino di Elisabeth.

“Ora – continuai – per quale ragione Rossetti avrebbe dovuto togliere la bottiglia dal tavolino e metterla sul letto di sua moglie?”

Charles smise per un momento di osservare il libro che teneva fra le mani e mi guardò con attenzione.

Ripresi: “Rossetti dichiara al Coroner che al suo arrivo trova la fiala piuttosto vuota. Sarah Berryl testimonia che la fiala è mezzo piena. Il Dr. Hutchison, chiamato immediatamente al capezzale della Siddal, testimonia che si trattava di una fiala da due once. Dunque la fiala è stata spostata e due testimoni si contraddicono sul suo contenuto.”

“Pertanto lei sostiene che Elisabeth non può aver preso più di un oncia di laudano.” Aveva suggerito Charles.

“E che Rossetti ha spostato la fiala senza nessun motivo apparente”

“Immagini – aveva risposto – che arrivando l’abbia raccolta dal tavolino. Poi si è avvicinato alla moglie e ha lasciato cadere la fiala sul letto, nella fretta di soccorrerla.”

“È possibile, ma, cadendo, la fiala, che prima era vuota, si è trasformata in un fiala mezzo piena!”

“Oppure ha cercato di nasconderla, per paura di uno scandalo.”

“Se vuole.”

“In somma, ogni volta che si parla di un Rossetti, lei trova immediatamente un mistero.”

“Una fiala su un tavolino non è una fiala vicino ad un cuscino. E una fiala vuota non è una fiala mezzo piena.”

“Ma è anche una fiala vuota, a metà solamente.”

Ma non avevo ancora finito; quando mi ero imbattuto nel caso di Stead, il giornalista che aveva scritto la serie di articoli sulla prostituzione infantile dilagante, ed era finito in prigione, avevo cercato di documentarmi sui processi penali per violenza sessuale. Quasi tutti erano terminati con l’assoluzione dell’accusato.

A quell’epoca il ragionamento dei giudici era abbastanza semplice. La prima domanda a cui cercavano una risposta era “è più credibile un gentleman maturo, con una professione liberale o una attività economica ben avviata, rispettato dalla società, oppure una ragazzina ignorante, incapace anche di scrivere e inesperta? Si rispondevano immediatamente che era più credibile il primo. Inoltre, più la ragazzina era giovane e più ritenevano che non fosse esperta negli affari sessuali. Quindi, concludevano, sorprendentemente, non era in grado di distinguere una vera violenza da uno scapaccione o una benevola carezza.

La mia sensazione era stata che i giudici vittoriani, salve le solite eccezioni, di cui però non avevo trovato traccia, fossero piuttosto propensi a difendere i ricchi e a maltrattare i poveracci.

Dissi tutto questo a Charles e conclusi che non sarebbe stato assurdo ipotizzare che il Coroner ed i giurati avessero volutamente ignorato le contraddizioni dei testimoni.

Questo non gli era piaciuto, né il concetto, e neppure l’enfasi del mio discorso. Immediatamente aveva ricominciato a scorrere i libri dello scaffale in silenzio.

Senza rivolgersi verso di me, disse “i giudici vittoriani difendevano la società e la morale della loro epoca, non della sua.” Ci aveva pensato su per un altro momento ed aveva aggiunto “lei mi scuserà se le dico che il suo concetto di verità è primitivo. È per quello che può sognare di trovarla. Ogni uomo conosce la sua verità personale, qualcosa che gli altri non potranno mai sapere.”

I commessi della libreria cominciavano a dar segni di nervosismo. Uno di loro venne a domandare se poteva aiutarci a trovare quel che cercavamo. Stavamo in mezzo al negozio a discutere senza nemmeno simulare di interessarci ai libri.

“Quando non si capiscono i motivi più profondi di un comportamento, si finisce sempre per intravedere la malafede. “aveva pomposamente sentenziato Charles dopo aver sorriso al commesso.

“Una fiala non può essere vuota e mezzo piena allo stesso. Se uno non lo nota è imbecille oppure in malafede. Questo non ha nulla a che fare con le verità personali.”

“E, se anche la Siddal si fosse suicidata -rispose accalorandosi – non sarebbe stato più umano ignorare quei dettagli che le stanno così a cuore e che, noti bene, potrebbero essere verità inessenziali, e decidere che si era trattato di un incidente?”

“Ora ha usato anche lei la parola ‘verità’” risposi.

“L’ho usata solo per farmi capire. La verità, amico mio, è un luogo gelido e desolato. L’ho visitato tantissimi anni fa; ho capito che non può contenere la vita. Ne stia lontano.”

Tacqui. C’era tanto sconforto nelle parole di Charles che non riuscivo più a pensare. Prima la storia dei due Fritz ed ora quella sentenza pomposa, ma terribilmente amara sulla verità. Avrei preferito andarmene, girare i tacchi e sparire, tornare all’aperto sotto il sole che illuminava eccezionalmente Londra, invece di stare lì a farmi sballottare fra le stranezze ed i cordogli di Charles che parlava come un oracolo, per enigmi.

“Forse ha ragione. – ribattei nonostante tutto – ma quelle contraddizioni rimangono un mistero”

“Perché no? – concluse – i misteri sono sempre affascinanti.”

Aveva smesso di rigirare nervosamente i guanti fra le mani. Doveva essersi accorto anche lui del nervosismo dei commessi. Si allontanò dallo scaffale e ci dirigemmo verso l’uscita.

Mi ero distratto ed avevo aggiunto “poi c’è la storia del dottore…”

“Quale dottore? domandò guardandomi sorpreso.

“Quello che è arrivato alle sei del mattino. L’unico medico presente quando Elisabeth è morta”

“La Siddal?”

“E chi altrimenti! Il Dottor Hutchison è stato chiamato immediatamente da Rossetti ed è arrivato poco dopo. Ma poi se ne è andato, ne sono arrivati altri. Alle sette, nel momento della morte, c’era un altro medico. Non ha testimoniato all’inchiesta”

Si sforzò di sorridere: “quel Coroner era un vero disastro!”

Sembrava che non gli importasse nulla di quella storia. In fin dei conti era stato lui a farmi notare la tomba di Lizzie Siddal. Mi era sembrato di capire che lui si trovasse ad Highgate proprio per lei.

‘Che vada all’inferno – pensai – anzi che ci vadano entrambi, lui e la Siddal, se non c'è già.”

“Si chiamava John Marshall “disse improvvisamente, proprio mentre stavo per salutarlo ed andarmene.

“Chi?”

“Il Dottore che ritrovava di fianco a lei quando morì alle sette del mattino del 11 Febbraio del 1862”

Appena usciti dal negozio lui aveva preso a sinistra. Io l’avevo seguito in silenzio senza rinunciare al proposito da mandarlo al diavolo.

Arrivati in Leicester Square Charles si fermò.

“È qui che Elisabeth Siddal ha cenato per l’ultima volta prima di morire.” disse indicando la piazza

“Al ristorante dell’Hotel Sablonière, se non ricordo male? – avevo domandato. – Doveva essere un luogo elegante.”

“Mica tanto” mi corresse.

Gli chiesi dove fosse esattamente il ristorante.

Indicò un punto, probabilmente verso est: “Là, prima c’era la casa di Hogarth, ma l’edificio è stato abbattuto. Mi sembra di ricordare che il proprietario dell’Hotel fosse un italiano, ma non ne sono certo.”

Mi domandai come facesse a conoscere tutti quei dettagli.

“Hanno cenato lì, Elisabeth, il marito e Swinburne, appena dopo le sei del pomeriggio. Il medico aveva proibito gli alcolici a Swinburne ed Elisabeth fece di tutto per impedirgli di bere. Finita la cena, Rossetti ed Elisabeth sono saliti su una carrozza e sono rientrati a Chatam Place”

“Mi scusi – lo interruppi – dove sono andati?”

“A casa, abitavano in Chatham Place”.

Poi aggiunse “è qui vicino che è cominciata la avventura di Elisabeth”. L’avevo guardato con aria interrogativa e si era affrettato a spiegarmi che in un negozio di modista, nei pressi di Leicester Square, lavorava Lizzie quando fu scoperta da Deverell, un membro della confraternita preraffaelita.

Rimase in silenzio, un silenzio assoluto e prolungato. Avevo l’impressione che in quel momento lui non fosse più lì con me, ma in quell’altra piazza, quella del 1862, alle sei di sera. Lo sguardo fissava il punto dove c’era stato l’Hotel Sablonière. Il volto era immobile, senza alcuna espressione. Ruotò lentamente il capo, come se stesse seguendo con lo sguardo delle figure in movimento. Il respiro si era fatto più pesante. Teneva i pugni serrati.

Poi, in un attimo, sembrò ritornare in sé. Si volse di nuovo verso di me e mi domandò se volessi andare anche a Weymouth Street.

“Dove?” avevo risposto.

“A Weymouth Street” ripeté.

“Per quale motivo? Cosa c'è in quel luogo?”

Mi guardò. “Non è importante – concluse – lasciamo perdere. Era solo un’idea, neppure tanto sensata.” Riprese “Mi dica piuttosto se ha letto il libro della Hunt.”

“Solo il verbale del Coroner, glielo ha già detto. Il resto l’ho solo sfogliato; lo stile è terribile.”

“Certo, lo ricordo perfettamente”.

Attorno a noi la corrente dei passanti si divideva per ricongiungersi pochi metri dopo. Le loro occhiate di disapprovazione cominciavano a disturbarmi. Finalmente riprendemmo a camminare. Charles sembrava distratto.

Battendosi la mano sulla fronte, si ricordò improvvisamente di un appuntamento. Non so perché lo invitai a cena per il giorno dopo. Ci salutammo. Si allontanò nella folla di Leicester Square. Distinguevo la sua lobbia oscillare al di sopra dei passanti. Arrivato all’altezza della stazione della metropolitana, sparì definitivamente.

L’amante di Carroll

Arrivai in ritardo alla sessione pomeridiana del congresso.

Il relatore di turno stava parlando della poetica di Tennyson. Era sul punto di concludere il suo intervento quando mi ero affacciato nella sala; le luci erano abbassate e solo il tavolo della presidenza era illuminato. Rimasi in piedi di fianco alla porta; non avevo mai provato simpatia per Tennyson.

La pausa per il caffé era cominciata dopo qualche minuto.

I congressisti conversavano a gruppetti di quattro o cinque nella hall; attorno all’ultimo relatore si era formato un gruppo più folto, probabilmente di altri studiosi dell’opera di Tennyson. Le tartine sul buffet dovevano essere almeno altrettanto interessanti dei poemi di Tennyson perché si erano piazzati proprio di fianco al tavolo dei rinfreschi e dal gruppo emergevano in continuazione delle braccia che si impossessavano in un lampo delle tartine.

In un angolo della sala scorsi un mio collega svedese, professore anche lui di letteratura inglese all’università di Lund. Ci conoscevamo da molti anni. Avevo passato un periodo di sabbatico presso il suo dipartimento ed eravamo diventati amici.

Kurt e pochi altri colleghi sono tutto ciò che è rimasto delle mie esperienze scandinave; il resto è stato ingoiato dalle nebbie fredde che arrivano all’improvviso dal mare del nord: Arnt, un grande scienziato di Oslo, che mi ha insegnato ad essere modesto, e a defilarmi quando tutti sono pronti ad applaudirmi; l’ho visto per l’ultima volta quattro anni fa, poco prima della sua morte, quando era già arrivato a quasi novant’anni senza perdere ne la sua espressione infantile ne, tanto meno il suo sguardo vivace. Il direttore di una delle più grandi società svedesi, capace di passare il pomeriggio con me ad osservare i prezzi dei formaggi esposti nelle eleganti boutique gastronomiche del centro di Lund per dimostrare che importare formaggi è enormemente più redditizio che lavorare nell’innovazione tecnologica, l’ho perso di vista. Non ho dimenticato invece l’incontro col primo ministro Finlandese; una gentile signora che ci raggiunse sulla porta di una sala riunioni dopo aver parcheggiato la sua minuscola auto giapponese e che presentandosi mi informò di essere il primo ministro. Ricordo ancora i mattini gelidi di molti anni fa, a Trelleborg in attesa dei traghetti da Travemunde, le gite estive all’isola di Hven dove il Re di Danimarca aveva praticamente esiliato Tycho Brahe, che da lì osservava il moto dei corpi celesti. I suoi appunti passarono a Keplero che ne seppe fare buon uso inventando la teoria eliocentrica. Tante altre cose nebbie che arrivano improvvisamente dal mare sulle coste della Scania hanno nascosto per sempre; uomini e donne, storie finite bene o male.

Kurt è almeno una quindicina di centimetri più alto di me, segaligno e biondo, come ci si aspetta da uno svedese. La testa, quasi perfettamente sferica, poggia su un collo sottile con un pomo di Adamo sporgente e aguzzo che non smette mai di andare su e giù

Pessimo parlatore, possiede però una mente brillante ed una ammirevole tenacia nell’affrontare i problemi che gli stanno a cuore, anche se gli era capitato qualche volta di intuire problemi inesistenti, e di restare vittima della sua ostinazione.

“Salve – disse quando mi vide, ruotando rigidamente il busto nella mia direzione mentre appoggiava il programma del congresso su un tavolino – sapevo che eri qui, ma non ti avevo visto in giro.”

Mentre l’abbracciavo, gli chiesi notizie della sua famiglia.

“Stanno tutti bene; – rispose – ora, che io sono altrove, anche meglio probabilmente!”

Kurt era vittima da anni della sua ostinazione a ricostruire la vita di Lewis Carroll.

“Se non si capisce cosa gli è capitato – ripeteva spesso – è inutile cercare di comprendere il senso delle sue opere.”

A quel punto cominciavamo di solito a discutere accanitamente perché non avevo mai condiviso il suo punto di vista: spesso le biografie dei grandi scrittori sono piuttosto insulse e i biografi devono ricamarsi sopra per renderle in qualche modo proporzionate alla genialità delle loro opere. Il caso di Carroll, questo l’avevo riconosciuto più di una volta è particolare; secondo Kurt, ed era difficile dargli torto, Carroll aveva sempre fatto del suo meglio per sviare i suoi lettori. Lo aveva fatto – secondo Kurt – metodicamente, tanto che alla fine non riusciva neppure a concepire di scrivere qualcosa senza farlo sembrare qualcos’altro. Ricordo ancora un seminario di Kurt su quell’aspetto di Lewis Carroll. “Alla fine – aveva concluso Kurt – Carroll riusciva probabilmente a sviare anche sé stesso.”

Qualcuno gli aveva domandato perché Carroll volesse sviare sistematicamente il lettore. Lui aveva candidamente risposto che non ne aveva la minima idea. Dal pubblico si era alzato un brusio, che Kurt aveva zittito ricordando a tutti che lui non era uno psicologo.

La campanella stava suonando per richiamare il pubblico nell’aula delle conferenze. Kurt ebbe un attimo di esitazione; quando capì che neppure io avevo l’intenzione di seguire i primi interventi, si rilassò. Andammo a sederci su due poltrone. Gli domandai su cosa stesse lavorando in quel periodo.

“Sulle poesie d’amore di Carroll” rispose.

Siccome con lui potevo fare a meno di mentire, ammisi di non ricordare nulla.

“Ma – aveva precisato – si tratta di una serie di lavori piuttosto complessi; preferirei parlartene stasera a cena. Se ti va qui, al ristorante dell’albergo.” Restammo a parlare per mezz’ora dei nuovi ristoranti italiani di Malmo prima di andar ad ascoltare gli interventi al congresso, anche per mancanza di alternative.

Alle 19.30 entrai nel ristorante dell’hotel. Come quasi tutti i ristoranti degli hotel, assomigliava vagamente ad un acquario tropicale. Kurt stava parlando con dei colleghi nordici. Stavano ridendo. Quando mi vide, indicò il nostro tavolo e mi venne incontro. Sulla tovaglia bianca c’era il menu a prezzo fisso per i partecipanti al congresso.

“Allora Kurt – cominciai dopo essermi seduto – racconta.”

Portava la solita giacca a quadri dalla disgustosa tonalità gialla, che faceva a pugni con una cravatta azzurra, annodata così stretta da far immaginare che avesse appena provato a strangolarsi da solo. D’estate invece indossava da almeno dieci anni un completo di un blu squillante, che permetteva di riconoscerlo immediatamente anche a distanze considerevoli.

Si grattò la nuca con forza. Normalmente, dopo una consistente grattata, era capace di esporre con lucidità le sue idee; doveva avere qualche difficoltà ad organizzarle in quel momento perché continuò a tormentare la sommità della testa con lo sguardo rivolto al soffitto, come per cercare l’ispirazione.

Mi aveva fissato ed aveva cominciato.

“Ecco...vedi. Ma dovresti saperlo anche tu… Tutti sono d’accordo che Carroll abbia avuto una breve ed infelice storia d’amore attorno al 1855.”

“Che età aveva Carroll nel 1855?” domandai.

Mi fissò scandalizzato. Era possibile che non conoscessi l’anno della nascita?

“Aveva 23 anni” rispose comunque.

“Tutti concordano su questo punto. – continuò – Molti si sono chiesti chi fosse la donna. Sono state fatte molte ipotesi: forse era la piccola Alice Liddell, quella di Alice nel paese delle meraviglie, forse era la madre di Alice, oppure Elen Terry, un’attrice. Ma nessuno è riuscito a trovare una soluzione convincente. Nei diari superstiti, Carroll non ha lasciato alcuna traccia. Non è possibile trovarne neppure nelle lettere che ci sono rimaste. Insomma l’identità della donna rimane un mistero.”

“Ok.” dissi. Si aspettava chiaramente un commento più interessato, ma non avevo nulla da aggiungere, non perché l’argomento mi lasciasse indifferente, solo perché delle poesie d’amore di Carroll non ricordavo assolutamente nulla.

“Ora io credo che l’unica possibilità di svelare quel mistero sia quella di analizzare le poesie d’amore che Carroll ci ha lasciato. La maggior parte sono state scritte proprio attorno al 1855.”

“Sembra ragionevole.” commentai.

Questa volta si grattò il naso: “Bisogna tenere conto naturalmente che, se Carroll ha inserito qualche informazione, l’ha certamente nascosta in un gioco di parole o forse in un anagramma. Più spesso la camuffava in un riferimento o in una citazione.”

Fino a quel momento ero riuscito a seguirlo. Arrivò il cameriere con le portate previste dal menu fisso, l’acqua minerale e il vino. Kurt aveva avuto il tempo di riordinare le idee. Qualche tavolo più in là colleghi nordici avevano finito di mangiare ed erano passati ai superalcolici.

“E tu hai scoperto chi fosse questa donna?” chiesi masticando il primo boccone.

Lui, che era decisamente più educato di me, attese di aver deglutito.: “Ho scoperto varie cose – rispose consegnandomi un plico di fogli battuti a macchina- ma non il nome della donna. Apri il primo articolo, a pagina 12. Ci trovi 2 poesie, una di fianco all’altra. Quella di sinistra è del 1855. L’altra si trova alla fine di Alice nel paese delle meraviglie. Come vedi sono molto simili.”

Le avevo lette. Erano effettivamente molto simili. Avevo riconosciuto la seconda: Chi ha rubato le torte della regina.

Al loro tavolo, i colleghi nordici avevano cominciato a parlare a voce alta.

“Se osservi bene la quinta strofa della prima poesia, e la confronti con la terza della seconda..”

“La quinta strofa della prima poesia va confrontata con la terza strofa della seconda?”

“Esatto. La sola differenza fra le due sta nei pronomi personali.‘lui’ al posto di ‘noi’ per esempio. In Alice nel paese delle meraviglie nessuno capisce cosa significhi quella poesia.”

“Mica solo in Alice nel paese delle meraviglie “commentai rileggendo la poesia.

“Ma c'è una traccia, perché il re ad un certo punto esclama ‘Why, there they are?’”(“perchè loro stanno lì”)

“Non significa nulla nemmeno quello!”

“Apparentemente. – rispose Kurt, ansioso di mostrarmi la sua scoperta – Se interpreti la frase del re in questo modo: ‘perché il pronome they sta scritto lì?’ il suo intervento diventa molto meno assurdo. In fondo sta domandandosi proprio quello che ci stiamo chiedendo noi: ‘perché i pronomi personali sembrano messi a caso?’”

“Non ha tutti i torti” risposi controllando il testo mentre Kurt precisava che trucchi del genere Carroll li usava spesso.

Mi fece poi notare come in un romanzo scritto da Dickens nel 1841, Il vecchio negozio delle curiosità, il signor Swiveller, descrivendo la donna amata, dice “She is all my fancy painted her, Sir, that’s what she is.”. Quello era anche il primo verso della prima poesia, di nuovo con un pronome personale cambiato. “Un riferimento chiaro ed anche una evidenza che la chiave del codice sta nella sostituzione dei pronomi personali” concluse mentre i nostri colleghi nordici avevano cominciato a schiamazzare indecorosamente davanti al tavolo coperto di bicchieri vuoti.

“Quindi – continuò Kurt – ‘they’ diventa ‘I’ and ‘me’ diventa ‘him’ se si confrontano i primi due versi”

“E ‘they’ diventa ‘you’ “conclusi.

“E il verso ‘they all returned from him to you’ diventa un nuovo suggerimento – aggiunse Kurt sempre più agitato, nei limiti gli riusciva di esserlo – ed il senso della strofa diventa chiaro: ‘they’ è una specie di variabile, cui puoi sostituire ‘I’, ‘you’ opppure ‘he’. Vai a pagina 15 dell’articolo. Lì trovi il risultato delle sostituzioni suggerite da Carroll, ammesso che io abbia ragione.”

Lessi a pagina 15: Carroll era andato ad un appuntamento con una donna. Ma poi, per paura delle conseguenze della loro storia d’amore, si era nascosto tra la folla. Lei lo aveva aspettato; alla fine se ne era andata in omnibus. Kurt aveva anche dedotto che la donna non era sposata. Quello mi pareva meno certo. Lui cercò di convincermi. Passammo il resto del tempo a verificare le sostituzioni dei pronomi personali.

Eravamo finalmente arrivati al dessert mentre gli amici di Kurt venivano gentilmente invitati a lasciare il ristorante. Avevano continuato a sghignazzare nella hall ed erano usciti sparendo rumorosamente nella notte londinese.

Kurt non aveva mollato la presa. Aveva risposto ad ogni obbiezione. “Tutto sommato – ammisi stremato – potresti aver ragione.”

Erano le dieci di sera ed eravamo arrivati solo alla fine del primo di cinque articoli. Fortunatamente Kurt aveva l’abitudine di coricarsi presto; ci alzammo da tavola. Mentre aspettavamo che ci consegnassero le chiavi alla reception, promisi di leggere gli altri nei prossimi giorni.

Mentre mi spogliavo ripensai ad Humpty Dumpty.

Humpty Dumpty deve la sua fama ad una strofa popolare fra i bambini inglesi, che recita la sua caduta da un muro, e a Lewis Carroll, che gli ha dedicato un capitolo in uno dei suoi libri. Quello era il motivo che me lo aveva fatto ricordare mentre stavo andando a dormire dopo la cena con Kurt. “Quando io uso una parola – fa dire Carroll a Humpty Dumpty – il suo significato è quello che scelgo io. Niente di più e niente di meno.” È uno dei passi più famosi tra i critici letterari.

Chi fosse stato per davvero Humpty Dumpty non lo si è mai saputo di certo. Forse si trattava semplicemente un grosso cannone che aveva difeso Colchester nell’assedio del 1648, oppure del Cardinale Wolsey in persona. Qualcuno riteneva addirittura che fosse stato Riccardo III. Un’ altra possibilità è che fosse semplicemente di uno degli undici fratelli di Cluckety-Cluck, un uovo di Mamma Oca.

Fatto sta che, ad un certo punto della sua imperscrutabile esistenza, Humpty Dumpty era caduto; secondo alcuni si era trattato di un vero capitombolo giù da un muro. Secondo altri la caduta era piuttosto la metafora di qualcos’altro, un evento tragico probabilmente.

Riflettendo sulla frase di Humpty Dumpty, tutte le contorsioni enigmistiche di Kurt prendevano un aspetto più ragionevole.

“Perchè no?” avevo pensato un attimo prima di addormentarmi.

Gli spiriti

Emanuel Swenderborg aveva tenuto una conferenza a New York nel 1844 anche se era nato in Svezia nel 1688. Non si era trattato però di un caso di stupefacente longevità, come ci fece notare l’oratore di turno: nel 1844 Swenderborg era ovviamente già morto. Era stato però il suo spirito a parlare servendosi del medium Andrew Jackson Davis.

Swenderborg, ci spiego il nostro oratore, si era fatto un nome con la Regina Luisa Ulrica di Svezia: durante un’udienza le aveva mostrato le sue capacità extrasensoriali rivelandole di essere a conoscenza di un carteggio segretissimo della Regina col fratello. Stranamente, invece di nominarlo direttore dei servizi segreti, la regina si era convinta che Swenderborg riuscisse e communicare con gli spiriti.

In sala si diffuse un’atmosfera di divertita perplessità; qualcuno si era limitato ad osservare i vicini per studiare le loro reazioni; la maggior parte si era limitata invece a ricontrollare il titolo dell’intervento sul programma distribuito la mattina.

Swedenborg aveva proposto in una lunga serie di scritti una sua interpretazione non particolarmente disdicevole della religione cristiana; il pubblico però, invece di interessarsi alle sue elucubrazioni della trinità o della divinità di Cristo, era stato attratto piuttosto dalle sue certezze, sicuramente più emozionanti, a proposito della esistenza degli spiriti e alla loro capacità di comunicare con i viventi, mettendo da parte il nocciolo teologico della sua dottrina, che, colpevolmente, Swedenborg aveva illustrato in una serie di volumi ponderosi e francamente inappetibili.

Coerentemente con la sua dottrina, non solo Swenderborg aveva tenuto conferenze in spirito, ma non aveva neppure scritto i libri che aveva pubblicato: sosteneva che glieli avessero dettati degli spiriti e degli angeli con cui era in comunicazione.

Fatto sta che le opera di Swedenborg e di una serie di epigoni, avevan finito per costituire quello che sembrava un impianto ideologico plausibile del fenomeno dei medium, delle apparizioni dei fantasmi durante le loro sedute, della comunicazione diretta con gli spiriti dei defunti attraverso lo stato di trance, e dei tavolini che si agitavano senza che nessuno li spingesse. Le numerose chiese protestanti proponevano tante variazioni interpretative del Cristianesimo che l’aspetto teologico finì in gran parte dimenticato; rimasero i medium, le loro sedute più o meno suggestive, ed un numero considerevole di persone che credevano per davvero di poter comunicare con gli spiriti dei defunti, svariati milioni di persone soprattutto negli Stati Uniti d’America ed in Inghilterra. Il movimento crebbe rapidamente: anche Abramo Lincoln ricevette un paio di volte un medium alla casa bianca, e qualcuno di loro si esibì perfino al circo Barnum. In Inghilterra, come accade spesso, certi eccessi furono evitati anche se a Londra, attorno alla metà del secolo si contavano un centinaio di medium professionisti.

Con eccezionale tempismo il relatore aveva introdotto l’argomento religioso: “Swenderborg – aveva aggiunto – invece di perdersi in uno spiritismo pagano e superstizioso, aveva conciliato il suo spiritualismo con i valori più profondi della religione cristiana, tanto che ancora esistono rispettabilissime chiese spiritualiste nel mondo. Due erano le idee di fondo che contribuirono a creare il moderno spiritualismo. La prima è che gli spiriti operano per aiutarci attraverso le capacità dei medium. La seconda è che ognuno di noi può migliorare sé stesso operando rettamente per amore di Dio, con l’aiuto degli spiriti di coloro che ci ha preceduto in questa vita.”

Mentre l’oratore passava a parlare del magnetismo animale di Mesmer, riflettevo sul Vampiro di Highgate. ‘Se qualcuno – avevo pensato – è troppo attaccato a questo mondo materiale, e non riesce a sognare gli spiriti, finisce fra le mani del Vampiro di Highgate.’ Mi ero quasi appisolato con quel pensiero quando il relatore aveva raccontato di Beniamino Franklin e della sua commissione, che aveva definito la teoria del magnetismo animale nient’altro che una forma di superstizione.

Dovevo aver dormito per un decina di minuti. “… nel 1851 fu fondata a Cambridge la Società del Fantasma, allo scopo di verificare la natura dei fenomeni sopranaturali.” Mi ero svegliato completamente. “E poco più tardi la famosa Società per la ricerca Psichica fu creata a Londra. Molti membri della società erano nomi famosi: Tennyson, Mark Twain, Lewis Carroll, Ruskin, ma anche Gladstone e Conan Doyle.”

Il relatore veniva da Oxford. Bastava osservarlo per capire che era un professore di una antica università inglese. Attorno al collo della camicia, orribilmente stazzonato, portava una cravatta che doveva aver annodato, una volta per tutte, almeno quindici anni prima. La giacca verde, a quadri, era rattoppata sui gomiti, al bordo delle maniche e sul collo. I pantaloni grigi sembravano due tubi troppo larghi ed informi. Parlando si passava continuamente la mano sinistra sui lunghi cappelli bianchi. Il volto era monopolizzato da un gran naso rubizzo e due sopracciglia foltissime che sovrastavano un paio di occhiali dalla pesante montatura giallognola. Le lenti ingigantivano due occhi chiarissimi, di un azzurro pallido, che fissavano ora la platea ora le diapositive proiettate alle sue spalle.

Assieme ad un certo numero di ciarlatani, un gruppo ristretto di medium più noti era al servizio di personaggi famosi che, secondo l’oratore, credevano seriamente negli spiriti. Citò William Michel Rossetti e il suo racconto delle sedute spiritiche in cui Dante Gabriele aveva tentato di comunicare con lo spirito della moglie scomparsa da pochi mesi.

‘Di nuovo Elisabeth! – pensai nello stato di dormiveglia in cui stavo di nuovo precipitando mentre gli occhi volevano proprio chiudersi – Sulla storia sua esumazione ad Highgate qualcuno ha perfino girato un film dell’orrore. Vampiro oppure spirito? Chi lo può dire?’

Uscii di nuovo dal torpore quando il relatore, alzando la voce, domandò al pubblico “Ma perché tutto questo? Perché un successo così rapido e generalizzato dello spiritismo nell’Inghilterra vittoriana?”

Ma la risposta che diede la conoscevo già: il darwinismo, la rivoluzione industriale, i treni ed il desiderio di reagire a tutti quei cambiamenti accelerati, di riaffermare gli antichi valori religiosi.

Ero riprecipitato nel mio torpore. Quando le luci si erano finalmente riaccese in sala, il mio vicino di destra aveva tossito risvegliandomi.

Stavo osservando i passanti attraverso le grandi finestre della hall quando intravidi la lobbia di Charles stagliarsi di fronte alla porta girevole. Mancavano due minuti alle otto. Appena entrato, se la tolse e si guardò attorno. Mi ero alzato e gli ero andato incontro mentre stava togliendosi il cappotto. Esitò per un attimo, finché non mi notò e si diresse verso di me. “Lei è senza dubbio una persona puntuale.” esclamai mentre gli porgevo la mano. Aveva sorriso distrattamente stringendola: stava cercando con lo sguardo un attaccapanni dove sistemare gli abiti.

“Da questa parte.” dissi mostrandogli il guardaroba in fondo alla sala. Consegnò il cappotto e la lobbia all’inserviente e mi seguì dentro al ristorante. Un cameriere mi riconobbe e ci accompagnò al tavolo.

“La puntualità è una delle poche virtù che mi sono rimaste.” osservò sedendosi.

“È una virtù piuttosto rara di questi tempi.”

Il cameriere tornò subito per le ordinazioni. Charles ordinò solo un consommé.

“Un locale piacevole.” osservò guardandosi attorno.

Ho sempre detestato i ristoranti degli alberghi di lusso: sono terribilmente formali, ma non glielo dissi. Provo anche una certa pena per i camerieri ingessati nei loro smoking e devo sempre fare uno sforzo per sopportare i sommelier.

“Mi parli del congresso – cominciò raccogliendo il tovagliolo dal tavolo –. Qualche relazione interessante?”

“Proprio oggi un professore di Oxford ha fatto un intervento sullo spiritismo in Inghilterra, nel diciannovesimo secolo naturalmente.”

“Voleva dire spiritualismo?”

“Si, se lo preferisce. Ma, se ho capito bene, gli spiritualisti frequentavano i medium per parlare con gli spiriti.”

“Capitava, qualche volta.” rispose.

“Che si facesse confusione fra spiriti e vampiri?”

“Vampiri?” si sorprese.

“Perchè no? In fondo si assomigliano abbastanza.”

“Neppure per sogno! – rise – I vampiri non esistono.”

“Sa che il vampiro di Highgate è stato visto anche in bicicletta!” scherzai.

Rise di cuore: “Questa davvero non la sapevo!”

Intanto era arrivato il cameriere con il consommé di Charles e la mia bistecca con patate e piselli e, subito dopo il sommelier si era affannato sulla bottiglia del Bordeaux. Il ristorante si stava riempiendo ed il brusio delle conversazioni ci stava costringendo ad alzare il volume della voce.

“E gli spiriti evocati dai medium? – domandai dopo aver attacato la bistecca – quelli invece esistono?”

“Non sono altro che anime.” dichiarò facendosi serio.

“Capisco – riposi – ma è difficile crederci.”

Perchè no? – si sorprese – In fondo è impossibile dimostrare che l’anima non esiste.”

Poi aggiunse “Lei riesce ad immaginare che un giorno, quando lei morirà, anche la sua coscienza si dissolverà nel nulla?”

“Sembra l’ipotesi più ovvia. Ammetto tuttavia che non è facile.” commentai bevendo un sorso di Bordeaux.

“Appunto!”

Il consommé di Charles si stava raffreddando senza che lui lo toccasse.

“Charles – avevo esclamato – non mi dica che lei crede ai fantasmi!”

“Certo che ci credo.”

“Perchè?”

“Perchè so che esistono.”

“Ne ha visto qualcuno?”

“Non è necessario vederli per sapere che esistono.”

“E ci crede ugualmente?”

Aspettò un momento a rispondere. Sorrise e si scuso: “So che le può sembrare strano e non voglio insistere. Si tratta di un argomento scivoloso. In fondo sono solo una dei milioni di persone che credono nell’esistenza dell’anima.”

“È mai stato all’opera? “domandò improvvisamente. Ovviamente c’ero stato.

“E allora immagini quei momenti, quando le luci sono abbassate, la scena aperta su un paesaggio che non esiste, il soprano canta assieme al tenore una melodia bellissima, nella buca dell’orchestra si intravede il direttore che gesticola, i violini che si muovono all’unisono, in platea e nei palchi gli spettatori ascoltano in silenzio, qualche inserviente si muove senza far rumore; e adesso mi risponda francamente, si sente certo di poter dire che tutto ciò che la circonda è solo, unicamente, categoricamente materiale? Che la parola ‘spirito’ è solo un modo di dire, oppure che siamo semplicemente costretti ad inventarla per la paura di morire, o piuttosto qualcosa di palpabile, che ha una sua consistenza, scusi se uso questa parola, sperimentale?”

Cambiò discorso senza aspettare la mia risposta, con l’espressione di chi ha espresso qualcosa di definitivo: “Stamattina ripensavo al suo mistero sul libro di Rossetti. Forse esistono ancora delle lettere fra Hookham Frere e Rossetti a proposito dell’opportunità di pubblicare quel libro. Dovrebbe informarsi. Mi sembra la sua ultima possibilità.”

“Dovrebbero trovarsi, ammesso che esistano, in qualche archivio qui in Inghilterra.”

“Non necessariamente – precisò – Rossetti era italiano. Potrebbero essere in Italia.”

“Posso provare a cercarle. Non sono uno storico e ho poca confidenza con gli archivi.”

“È la sua ultima possibilità” ripeté.

Avrei chiesto a Lorenza.

Il consommé di Charles doveva essere ormai gelido. Io invece avevo terminato la mia bistecca. La bottiglia di Bordeaux era mezzo vuota. Kurt stava lasciando il ristorante assieme ai suoi colleghi; passò a pochi metri da noi senza accorgersi di me.

“A proposito della conferenza di oggi – ripresi – il professore di Oxford ha cominciato parlando delle società, spuntate come funghi in quel periodo, per promuovere le ricerche sugli spiriti e sui fenomeni soprannaturali. Saltava dai misteri degli antichi egizi alla chiesa cristiana primitiva, dalla costruzione del tempio di Salomone ad Ermete Trimegisto passando per l’oracolo di Delfi. Ad un certo punto ha cominciato a raccontare di un certo Hiram Abiff, un architetto figlio di una vedova, che era arrivato da Tiro per realizzare il tempio di Salomone ma era stato ucciso da tre delinquenti…”

Ridendo avevo aggiunto che nessuno del pubblico ci aveva capito qualcosa il professore se ne era accorto. Allora aveva cercato di spiegarsi meglio senza risultati apprezzabili. “Così – conclusi ridendo – ha finito per non parlare di letteratura. Non ne ha avuto il tempo.”

“Ha raccontato le stesse cose che stavano a cuore al suo amato Rossetti. Poi non sia neppure tanto certo che nessuno del pubblico conoscesse la leggenda di Hiram Abiff” rispose interrompendomi.

Mi aveva sorpreso. Aveva ragione: quelli era proprio gli argomenti di Rossetti. Come mai non ci avevo pensato?

‘Sono stato uno stupido a non accorgermene ' pensai.

Charles continuò, mentre mi stavo ancora chiedendo perché qualche collega avrebbe dovuto sapere chi era Hiram Abiff: “Lei non ha alcun interesse per questo genere di cose; le sembrano solo delle stramberie senza capo ne coda. Eppure quelle leggende, quei misteri sono sopravvissuti per migliaia di anni. Lei può anche credere che siano solo delle sciocchezze, ma deve almeno ammettere che sono sciocchezze in cui hanno creduto centinaia di generazioni di suoi simili, che se le sono tramandate oralmente, finché qualcuno non si è deciso ad inventare la scrittura. Perché proprio quelle e non delle altre. Provi a trovare una risposta a tutto questo. Forse capirà”

Ascoltavo in silenzio.

“Prima di aver trovato quella risposta – concluse rilassandosi sulla sedia – non potrà mai comprendere gli spiritualisti vittoriani del professore di Oxford.”

Ero imbarazzato.

“Come può – avevo ribattuto – una persona ragionevole credere che gli egiziani abbiano scoperto i segreti della vita e della morte? Se Darwin ha ragione, gli egiziani erano solo un po’ più simili di noi alle scimmie. Avevano degli strumenti concettuali più confusi e primitivi. Cosa vuole che sapessero che noi non conosciamo?”

Sorrise, gentile come sempre, ma mi sembrò di scorgere una espressione di vago compatimento sul suo viso.

“Supponga per un attimo di aver torto. Forse ci sono cose che non capiamo più perché sappiamo troppo” suggerì.

“Proprio non mi riesce”

“Ci provi ugualmente. Immagini che esista un modo di usar le parole, di articolare un discorso, di raccontare che lei non ha mai conosciuto e neppure intuito, e che il senso di ogni parola abbia avuto un significato che lei ignora. Immagini poi 1000, 2000, forse 5000 anni di storia. All’inizio quei racconti misteriosi venivano tramandati oralmente. Poi qualcuno li ha scritti. In tanti anni molti sono andati perduti, ma altri, una percentaule trascurabile, sono stati scritti e riscritti forse 20, 30 volte, mentre le lingue e la scrittura cambiavano. Ma i racconti, i miti, i grandi segreti sono stati tramandati.”

Potevo quasi vedere quegli anonimi copisti riprodurre documenti forse quasi illeggibili, scritti su fogli di papiro o pergamene imputridite 100 o 200 anni prima in una lingua ormai morta, alla luce di un lume a petrolio.

Appena mi ripresi, obbiettai: “credo che sia assai più probabile che una pagina che descriveva magari della cultura delle patate…”

“Delle patate?” obbiettò.

“O di qualche altro tubero ormai scomparso – mi corressi imbarazzato – possa, a forza di essere tradotta e ritradotta, essersi trasformata in un testo pressoché incomprensibile, per effetto degli svarioni commessi da tutti i suoi copisti. Qualcuno con una fantasia fervida può magari averci visto delle formule magiche o Dio sa cosa!”

Il suo sguardo non era cambiato. Continuavo ad avere l’impressione che mi compatisse.

Disse: “è un vero piacere conversare con lei eppure le devo confessare quel che penso. Credo che lei abbia paura dei misteri. Usa la sua intelligenza per proteggersi da loro e la sua arma è la verità.”

“Ma è anche possibile – risposi – che qualcuno se li inventi per proteggersi dalla realtà.”

Stavo arrabbiandomi seriamente. Sembrava che avesse deciso di non rispondere alla mia obbiezione. Taceva, con le mani stese sul tavolo ai lati del piatto.

‘L’ho offeso – pensai con qualche senso di colpa – meglio parlare d’altro.’

Ora faceva scorrere le dita sulla catena d’oro che attraversava il panciotto indossato su una camicia bianca a righe verticali blu, molto sottili.

Mi ero sbagliato.

“È lei piuttosto che si difende con delle deduzioni sbagliate. – riprese con convinzione – Certo, gli egiziani non conoscevano le verità scientifiche di oggi, quelle della biologia, della chimica, della fisica. Ma questo, se ha la pazienza di rifletterci sopra per un momento, non dimostra che non ne potessero conoscerne altre, che oggi non siamo neppure in grado di immaginare proprio perchè abbiamo troppe certezze”

“Non riesco proprio ad immaginare quali potrebbero essere.”

Sorrise di nuovo. “Perché non riesce a concepire che si possa guardare il mondo in un modo diverso da quello di oggi.”

Avevamo continuato per mezz’ora senza concludere nulla, fino a quando avevo dovuto andare in bagno.

Avevo tentato di spiegargli che quello che lui mi proponeva era un esperimento mentale impossibile, uno di quei trucchi che i filosofi analitici si inventano per menarci per il naso dopo aver mostrato che sono logicamente possibili: “Supponga che io mi sforzi di guardare il mondo nel modo che lei mi suggerisce; poi come lo racconto? A mugugni, giravolte, eseguo una danza sciamanica, che non so fare?”

Tornando dalla toilette, cambiai discorso. “L’altro giorno – cominciai – mi ha davvero stupito a Leicester Square; ho avuto l’impressione che conoscesse perfettamente l’aspetto di quella piazza 150 anni fà.”

“Era molto diversa da oggi – rispose continuando a far scorrere la mano sulla catena dell’orologio – C’erano dei piccoli viali in cui si poteva passeggiare, formavano un quadrato. Una ringhiera separava quel piccolo parco dalle strade circostanti, in cui posteggiavano i vetturini in attesa dei clienti stranieri. La piazza era circondata da alberghi frequentati dagli stranieri, e dal teatro Alhambra, che poi è diventato un circo, dove si esibiva il famoso acrobata francese Leotard.”

Continuò a descrivere Leicester Square come se ci avesse davvero passeggiato attorno al 1862.

Stavo ascoltandolo affascinato dalla sua descrizione, quando si interruppe e concluse “D’altra parte sono dettagli che può scoprire in qualsiasi stampa dell’epoca. Non è difficile trovarne una nei negozi di antiquariato.”

La cena era ormai finita. L’accompagnai al guardaroba. Ci salutammo sulla porta. “Mi telefoni quando ha un momento libero. Oppure la chiamerò io” e se ne andò.

Nel secondo articolo Kurt aveva esaminato un’altra poesia di Carroll, scritta probabilmente nello stesso anno della “She is all my fancy painted him”. Comunque attorno al 1855.

Avevo cominciato a leggerlo la mattina presto, alle 5.30. Mi ero svegliato a quella ora insolita, avevo fumato una sigaretta ed il sonno era scomparso definitivamente. Fuori faceva ancora buio e pioveva.

Il libro di W. M. Rossetti, che avevo comperato in Charing Cross, mi aveva deluso. La parte dedicata al padre conteneva solo notizie che conoscevo da tempo. La sera precedente lo avevo sfogliato per la prima volta. Charles Lyell era ricordato come amico intimo di Gabriele, che però capitava solo di rado a Londra. Alla notizia della morte di Hookham Frere, Rossetti era scoppiato in lacrime. Solo dettagli trascurabili.

Mi ero preparato un caffé liofilizzato ed avevo scorso gli articoli di Kurt dopo essermi rasato ed aver fatto la doccia.

Kurt sosteneva che il primo verso di quella poesia era di nuovo una deformazione della solita citazione di Dickens. “Questo – concludeva – suggerisce che si parli della stessa donna”. Mi pareva sensato. E questa donna aveva gli occhi azzurri o verdi ed i capelli rossi, era più vecchia di Carroll ed aveva un’età di circa 28 anni.

La poesia, intitolata La mia fantasia, diceva più o meno così:

L’avevo immaginata una creatura esuberante

di circa venti anni;

Non credevo di scoprire che erano

almeno una dozzina di più;

La mia fantasia le dava degli occhi blu,

chioma riccia bionda:

Mi arrivò di scoprire che il blu era verde

Il biondo divenne rosso.

Mi ha tirato le orecchie stamattina

Mi pizzicavano molto;

Confesso che potrei augurarle

Un tocco un po’ più lieve;

E se mi chiedete ora come

le sue attrattive potrebbero essere migliorate,

Non vorrei aggiungerne

ma rimuoverne qualcuna!

Lei ha la grazia eterea dell’orso

il garbato riso della iena,

il passo dell’elefante,

il collo di una giraffa,

la amo tuttavia, credetemi,

Anche se il mio cuore nasconde la sua passione;

“Lei è tutto ciò che la fantasia immagina”

Ma oh, quanto oltre a ciò

Più avanti Kurt se la prendeva con la famiglia di Carroll per avere fatto sparire le pagine del diario che si riferivano al periodo 15–19 Agosto 1855. Perché non pensare che proprio lì Carroll parlasse di quella donna?

Poteva aver ragione oppure sbagliarsi.

Alle 8.30 avevo finito di leggere tutti gli articoli di Kurt sull’identikit della misteriosa donna amata da Carroll nel 1855. Il risultato era sorprendente.

Era stato un amore breve, cominciato nell’estate di quell’anno e finito poco dopo. Non mancavano i dettagli sulla loro relazione. Ma chi fosse quella donna non l’aveva trovato.

Avevo capito immediatamente che Kurt si aspettava evidentemente un aiuto a pubblicare quegli articoli su qualche rivista di letteratura.

Di Carroll sapevo ben poco.

Non appartenevo al club ristretto degli studiosi del Reverendo Dodgson, una specie di società chiusa che si sforzava di combattere la laconicità del reverendo e la vocazione censoria della sua famiglia. Subito dopo la sua morte, il fratello era corso immediatamente ad Oxford, aveva bruciato o fatto bruciare tutti i documenti personali di Carroll, migliaia di lettere ed appunti. Ovviamente nessuno sapeva esattamente cosa avesse distrutto. Aveva venduto o messo all’asta i libri, i mobili, i soprammobili in una quindicina di giorni. Quando se ne era andato restava poco o nulla. Sul perché di tutta quella urgenza e dell’accanimento a bruciare tutte quelle carte si potevano far delle ipotesi, nulla di più. Evidentemente si era portato a casa i diari che Carroll aveva tenuto per tutta la vita.

Ma la storia di quei diari era ancora più stramba. Erano spariti diversi volumi. La famiglia ebbe la faccia tosta di sostenere che erano andati persi durante un trasloco. La loro spiegazione non aveva ovviamente alcun senso. Carroll era già uno degli scrittori più famosi al mondo; il valore anche economico dei suoi diari non sarebbe sfuggito neppure ad un imbecille. E che avessero mentito era diventato evidente quando qualcuno scoprì che avevano tagliuzzato molte pagine dei volumi superstiti. Ancora più singolare era stato il drastico rifiuto della nipote Menella, 80 anni dopo la morte di Carroll, di rivelare le ragioni di quel massacro.

Carroll ci aveva messo del suo. I diari superstiti, per quanto ne sapevo, sembravano scritti in modo da mettere in difficoltà chiunque avesse voluto mettere il naso nella sua vita. Qualche volta chiedeva perdono a Dio per i suoi peccati senza spiegare quale dei dieci comandamenti avesse violato, gli prometteva di abbandonare le sue pessime abitudini senza accennare di quali abitudini si trattasse. Il resto era un elenco di spettacoli teatrali cui aveva assistito, di visite ad amici e di incontri con bambine e giovinette.

Ai membri del club non era restato che fare illazioni, raccogliere le testimonianze più o meno credibili di chi aveva conosciuto Carroll, cercare in ogni dove le lettere, rileggersi i vecchi giornali.

Non appartenevo al club degli studiosi di Lewis Carroll. Non sapevo nulla dei dibattiti e delle fazioni che si battevano per possedere la verità sul laconico reverendo. Se volevo dare una mano a Kurt, dovevo raccogliere qualche informazione. Eravamo amici da molti anni, lo stimavo, come ricercatore e come uomo. La sua onestà intellettuale era nota. Non me la sentivo proprio di rispondergli che non potevo dargli una mano a pubblicare quegli articoli.

Erano ormai le 8.30 del mattino e dalla strada arrivava il rumore del traffico. Il tempo non prometteva niente di buono. Mi ero preparato un’altra tazza di caffè e avevo composto il numero del mio dipartimento sperando che a quella ora ci fosse qualcuno.

Rispose Roberta, la mia segretaria.

“Ciao Roberta, sono io.”

“Ciao. Come va a Londra?”

“Piove”

“Cosa vuoi?”

“Passami Lorenza”

Lorenza è il mio collaboratore più stretto. È molto bella, con un caschetto di capelli castani, un viso dolce e sorridente che nasconde una determinazione ed un’autodisciplina eccezionali. Ci siamo subito piaciuti quando è venuta nel mio studio a chiedermi un tesi, ma non ho mai desiderato di portarmela a letto e lei, immagino, non ha mai sognato di venirci.

Rispose subito. Le raccontai degli articoli di Kurt. “Ho bisogno che tu verifichi tutte le informazioni. Ci devono essere decine di libri su Carroll in biblioteca. – aggiunsi – Ti spedisco gli articoli per fax. Fatti aiutare da qualche dottorando. Ti do carta bianca.”

“D’accordo – aveva risposto – fammeli avere.” E, subito dopo “Mi mandi a quel congresso a New York la prossima estate?”

Era un ricatto, ma avevo temuto di peggio. Risposi di si.

Secondo lei la probabilità che Kurt avesse commesso qualche errore era praticamente nulla. “Mi stai chiedendo di fare un lavoro inutile”.

“Fallo ugualmente”

“Se lo dici tu”

“Si, lo dico io” e riattaccai.

Guardai l’orologio. Gli interventi del congresso sarebbero cominciati solo un’ora dopo. Sopra il televisore c’era il libro di William Michel Rossetti. C’era un intero capitolo sulla morte di Elisabeth Siddal.

A dar retta a William Michel, Ford Maddox Brown, un pittore amico di Rossetti, era arrivato poco tempo per dare una mano ed era rimasto per molte ore. Appena giunto si era accorto che Rossetti aveva nascosta la fila di laudano, forse per evitare lo scandalo del suicidio. Brown gli aveva immediatamente suggerito di rimetterla a posto per non essere accusato di omicidio. La fiala di laudano era, secondo il fratello di Dante Gabriele Rossetti, completamente vuota. Perché Brown avesse pensato ad un’eventuale accusa di omicidio non era spiegato.

Qualcuno evidentemente mentiva o aveva fatto confusione.

Qualche persona doveva esser stato inviata ad avvertire Brown. Non poteva esser stata che la domestica o sua figlia, che erano state chiamate subito da Dante Gabriele.

Ma la figlia della domestica aveva dichiarato al Coroner di aver visto la fiala di laudano mezza piena.

Qualcosa non quadrava.

Ricapitolando, secondo le testimonianze, Dante Gabriele rientrando alle 11.30, aveva scoperto la moglie in coma. Aveva trovato la fiala di laudano su un tavolino vicino al letto di Elisabeth. Secondo lui era “piuttosto vuota.”

Eppure la figlia della domestica l’aveva vista sotto il cuscino della Siddal. Era mezza piena.

Dante Gabriele aveva mandato una delle due donne a cercare Brown. Quando questi era arrivato Dante Gabriele aveva nascosto la fiala. Brown gli aveva suggerito di rimetterla al suo posto per evitare di essere accusato di omicidio. Infatti il dottor Hutchison l’aveva trovata arrivando, non si sa dove.

Dal racconto del fratello di Dante Gabriele si deduceva senza alcun dubbio che Brown era rimasto per molto tempo e probabilmente era stato lui a consigliare Rossetti di chiamare altri medici. Per ultimo (gli altri o l’altro rimanevano anonimi) era arrivato il Dottor Marshall che aveva assistito alla morte di Elisabeth alle 7 del mattino.

Hutchinson aveva dichiarato al Coroner che 100 gocce di laudano era una dose importante. Come poteva sapere che la Siddal avesse preso quella dose? Suo marito aveva dichiarato che Elisabeth prendeva spesso un centinaio di gocce di laudano. Forse il Dottor Hutchinson aveva immaginato che quella sera lei avesse preso la solita dose.

Se aveva preso davvero 100 gocce, cioè la sua dose abituale, la intenzione di suicidarsi era evidentemente da ecludersi. Era anche estremamente improbabile che potesse morire, visto che 100 gocce la prendeva abitualmente. Ma Elisabeth era morta nonostante Hutchinson le avesse praticato una lavanda gastrica. Nessuno si era mai chiesto quanto laudano contenesse la fiala prima di quella sera. Forse nessuno lo poteva sapere.

Brown e Mitchell non avevano testimoniato all’inchiesta del Coroner nonostante il primo fosse evidentemente il testimonio principale ed il secondo fosse l’unico medico presente alla morte della Siddal.

Secondo la Hunt, che aveva probabilmente raccolto solo delle voci che circolavano più tardi, Brown aveva trovato un biglietto di Elisabeth che raccomandava al marito di assistere il proprio fratello malato dopo la sua morte. Brown, sempre secondo la Hunt, l’aveva gettato per non far trapelare la volontà suicida della Siddal. “Oppure – pensai – qualcuno si era inventato quella storia per confermare l’ipotesi di un suicidio.”

Il commissario Maigret avrebbe immediatamente aperto un’indagine.

Mi ero annodato la cravatta bevendo un altro caffè. Il brusio del traffico era aumentato ed aveva ricominciato a piovere. “Adesso Charles sarà costretto a prendermi sul serio” pensai infilandomi le scarpe. Volevo parlargliene.

Poi mia figlia aveva chiamato. Il danaro era arrivato e lei partiva il giorno dopo per le vacanze.

“Rita mi ha detto che devo darti meno danaro” le avevo detto.

“Chi è Rita, la tua ultima amante?”

“Fa nulla – avevo risposto – divertiti e mandami una cartolina.”

Nell’ascensore mi ero ricordato di De Quicey. Avevo letto le Confessioni di un mangiatore di oppio inglese almeno 20 anni prima. Era tornato di moda quando tutti avevano cominciato a drogarsi. Non mi era piaciuto. Al testo seguiva però un’appendice in cui De Quincey aveva riprodotto con cura le dosi di laudano che aveva usato per disintossicarsi progressivamente. Ero quasi certo che, prima di cominciare a disintossicarsi, ne prendesse 3000 al giorno. Il resto però non lo ricordavo. Bastava procurarsi quel testo. Lo si trovava in tutte le librerie. Mi ricordai anche di un altro libro, che mi era capitato fra le mani per puro caso. L’aveva scritto un certo dottor Day; si trattava di una specie di manuale ottocentesco per disintossicarsi dalla assuefazione al laudano.

Il Dottor Barnes

Da Foyles avevo subito trovato le Memorie di un mangiatore d’oppio. Decisi di cercare anche il libro di quel tale dottor Day. All’ufficio informazioni della libreria l’impiegato aveva risposto di non averne mai sentito parlare; aveva anche controllato nel computer: nessuna traccia. “Dovrebbe rivolgersi ai rivenditori di libri antichi.” suggerì: ne conosceva un paio, specializzati in testi scientifici, mi diede i nomi e gli indirizzi.

Guardai l’orologio. Ancora una volta avevo perduto la sessione del mattino al congresso. Pioveva ancora, anche se qualche raggio di sole illuminava a tratti le strade. Non valeva la pena di tornare alla sala delle conferenze.

Al primo indirizzo il commesso rispose semplicemente che non avevano il libro del Dottor Day. Non l’avevano neppure nel negozio successivo, ma il proprietario ricordava di averlo visto da qualche parte. Promise di domandare in giro; potevo passare il giorno successivo; forse sarebbe riuscito a procurarmelo. Tornai all’albergo.

Nella Hall i congressisti stavano conversando. Ero passato alla reception a prendere la chiave ed ero salito in camera.

Sfogliai il libro di De Quincey, non mi ero sbagliato: 100 gocce non erano una dose trascurabile, ma non certo mortale, almeno per De Quincey, anzi rappresentava una delle ultime tappe verso la disintossicazione completa.

In ogni caso sarebbe stato meglio trovare il trattato del Dottor Day.

Avevo chiamato Lorenza. Rispose al terzo squillo: “ho controllato le informazioni contenute nei primi due articoli di Kurt- mi annunciò – sono corrette. Ne ero certa, ma tu mi hai chiesto di controllare e l’ho fatto.”

Domandai cosa ne pensasse.

Non erano il tipo d’articoli che uno trova normalmente sulle riviste di letteratura, ma, secondo lei, erano interessanti.

“Ho esaminato anche le sue interpretazioni, le sostituzioni dei pronomi personali, il verso che secondo lui è la chiave del codice e l’intervento del re. Hanno un senso.”

L’avevo ringraziata” Vai avanti. Stai facendo un ottimo lavoro.”

Prima di chiudere, mi domandò se poteva iscriversi al congresso negli Stati Uniti. Risposi di si.

Non avevo fame ed ero stanco. Era stata una mattina faticosa. Meglio cercare di dormire per un paio d’ore.

Mi ero svegliato verso le tre del pomeriggio.

Tornando all’Hotel avevo ripensato al mistero della mancata pubblicazione del libro di Rossetti; Charles aveva suggerito di cercare negli archivi i carteggi fra Rossetti e Hookham Frere.

Richiamai Lorenza: le domandai di fare un breve ricerca in internet sulla vita di Hookham Frere, e di chiamarmi immediatamente. Non mi interessavano i dettagli; volevo semplicemente sapere per quanto tempo era vissuto a Malta.

“Se aspetti al telefono per un paio di minuti, posso darti la risposta.”

“Meglio che tu faccia le tue ricerche con calma; mi telefoni appena sei certa della risposta.”

Richiamò dopo un quarto d’ora. Hookham Frere era emigrato a Malta attorno al 1820 e non si era più mosso da lì fino al 1846 l’anno della sua morte.

“Allora controlla se qualcuno ha pubblicato le lettere di Gabriele Rossetti.” le domandai immediatamente.

“Perché non lasci perdere con quella storia?”

“Neanche per sogno. Cerca di informarti”

“Quali anni t’interessano?”

“Dal 1835 al 1841”

“Va bene. Ma faresti meglio a lasciar perdere” ed aveva riattaccato.

Ero sceso nella Hall dell’albergo senza decidermi ad entrare nella sala delle conferenze. Non ho mai amato i congressi. Avevano un senso 50 anni fa, quando non esistevano internet e la posta elettronica. Oggi si sa tutto di tutti: sulla rete si trovano bozze di articoli che usciranno solo sei mesi dopo. Tutti mettono le loro idee in rete, magari prima di averci riflettuto abbastanza. È una specie di congresso permanente.

Mi faceva piacere passare qualche giorno a Londra, dove avevo abitato per anni. Quello era il solo motivo per cui mi ero iscritto al congresso.

Mi ero guardato attorno, ed avevo scorto Kurt che conversava con una donna. L’avevo già notata durante l’inaugurazione del congresso; doveva avere circa quaranta anni: l’avevo trovata molto bella: non era alta e portava sempre dei tailleur grigi molto eleganti, con le gonne piuttosto corte che lasciavano intravedere due gambe notevoli. I capelli, castano chiaro con delle sfumature rosse, erano lisci e tagliati corti. Doveva essere americana o inglese;. il viso, dai tratti un po’ infantili con il naso all’insù e gli occhi azzurri era decisamente era dolce e severo allo stesso tempo. Passandole di fianco, avevo sentito l’odore di un profumo di classe. Mi incuriosiva, anche perché il suo aspetto era quello di un manager piuttosto che di uno studioso di letteratura anglosassone. Avevo sperato di conoscerla, ma fino a quel momento non si era presentata l’occasione.

Andai verso Kurt cercando di attirare la sua attenzione. Quando mi vide, si alzò facendomi un segno con la mano. “Ho letto I primi due articoli – cominciai avvicinandomi- mi sembrano interessanti. Vanno certamente pubblicati.” Sorrise soddisfatto.

“Posso presentarti Jillian Barnes” disse indicando la donna che sedeva con lui. Le spiegò chi fossi. Lei sorrise e mi porse la mano: aveva sentito parlare di me. Aveva anche letto un mio libro su Laurence Sterne ed i racconti picareschi, ed un paio di articoli su Robert Burton.

“Il Dr. Barnes – spiegò Kurt, che era sempre terribilmente formale – si interessa a Carroll. Insegna ad Harvard.”

‘Ed è molto bella ' pensai.

Jillian Barnes era sicuramente un caso accademico anomalo. Laureata in matematica, aveva cominciato ad interessarsi alla logica ed alla matematica di Carroll; aveva finito per diventare un’autorità su quel argomento. Era inglese, ma solo ad Harvard aveva trovato i finanziamenti per continuare le sue ricerche. Alla fine si era decisa a restare, aveva preso un dottorato di ricerca al dipartimento di letteratura inglese e teneva un corso su Lewis Carroll.

“Ho letto qualcosa – dissi sedendomi – sul Carroll logico. Pare che fosse un genio!”

“Non tutti sono d’accordo- rispose Jillian accavallando le gambe mentre ravviava i capelli che le erano caduti davanti agli occhi- qualcuno sostiene il contrario”

Franca mente non ero in grado di giudicare.

Kurt intervenne: “stavamo dicendo, il Dottor Barnes ed io, che con la logica Carroll ha cercato all’inizio la verità, si è sforzato di disfarsi dei luoghi comuni e dei pregiudizi. Alla fine però si è reso conto che la logica ha bisogno di assiomi.”

Lo guardai esterrefatto; non mi risultava che il mio amico fosse un esperto di logica; non capivo assolutamente di cosa stesse parlando. Di solito i pregiudizi, almeno quelli più diffusi, sono talmente stupidi che non c'è bisogno di studiarsi un manuale di logica per scoprirlo, basta un po’ di buon senso.

“Il punto è – precisò Jillian, che doveva essersi accorta della mia sorpresa – che la logica ha bisogno per funzionare, di supporre l’esistenza di verità a priori. Deve partire da alcune certezze. E queste certezze non hanno niente a che fare con la logica. Dipendono dalla definizione di verità.”

Continuavo a non capire il senso dello sproloquio di Kurt.

Jillian cercò di chiarire la storia degli assiomi: “per applicare la logica ha bisogno di partire da qualche parte, di assumere arbitrariamente che certe proposizioni siano vere. Il ragionamento logico le permette di dedurne altre da quelle iniziali ed esser certo della loro verità, ma a condizione che le verità iniziali siano vere. La verità di quegli assunti iniziali non la può dimostrare con la logica.”

Teneva il busto leggermente piegato in avanti e, stringendo i begli occhi di un azzurro intenso, apparivano sul suo volto delle piccole rughe d’espressione; qualche lentiggine, appena accennata, ricopriva le guance attorno agli zigomi. Seduto di fianco a lei, ero immerso nella nuvola del suo profumo, tenue e raffinato.

Avevo finalmente capito.

“Ma io credo che Carroll stesse cercando proprio la verità attraverso la logica. Ed alla fine si accorse che non era possibile. – si intromise Kurt – Se leggi Sylvie e Bruno, il suo ultimo romanzo – continuò – ti rendi conto dell’amarezza di quella delusione.”

“Non ho letto Sylvie e Bruno – risposi – ma francamente non mi sorprende che sia finita così. E non capisco neppure perché Carroll si sia imbarcato in una impresa chiaramente impossibile.”

Kurt abbandonò la sua poltrona e mi si avvicino: “è sorprendente che tu non l’abbia letto!”

Jillian era intervenuta di nuovo: “Forse Kurt ha ragione in qualche senso. Uno può coltivare una illusione inconsciamente, senza mai formularla chiaramente neppure a sé stesso, e magari solo alla fine rendersi conto di averla coltivata senza accorgersene, che tutti I suoi sforzi erano inutili, perché dietro c’era solo una illusione mai espressa chiaramente.”

“Questa – risposi sperando di impressionare Jillian – è la storia di ogni vita.” Lei mi stava fissando con un sorriso appena disegnato sul volto dal labbro inferiore che lasciava intravedere i denti.

“Ma la chiave della delusione di Carroll per la logica è la scoperta che la verità non è raggiungibile. E’ fuori dalla nostra portata. E’ una finzione necessaria per ragionare coerentemente, nulla di più.” insisté Kurt.

Poteva anche aver ragione. Anche Charles aveva detto qualcosa sulla verità. A me quelli parevano discorsi oziosi. Certe verità si possono mostrare, ma non dimostrare.

Jillian, forse per paura di essere fraintesa, si affrettò a precisare che le sue ricerche riguardavano solo gli aspetti tecnici della logica di Carroll. Ebbi l’impressione che volesse farmi capire di non condividere completamente l’opinione di Kurt.

“Se non ricordo male – dissi dopo aver ordinato un caffè ad un cameriere di colore che stazionava nella hall – era affascinato dai giochi di parole, dagli anagrammi, delle assurdità, dai paradossi.”

“La scoperta dei paradossi è la chiave per l’evoluzione della logica.”

“Ma i paradossi sono anche la manifestazione dei limiti della logica.”

Ci fu una pausa. Ne approfittai per cambiare discorso. Kurt sembrava offeso dalla mia insensibilità. Si chiuse in un silenzio polemico. Si aspettava chiaramente che passassimo l’intero pomeriggio a discutere la sua intuizione sulla delusione di Carroll. Io guardavo Jillian mentre mi parlava del suo lavoro ad Harvard. Kurt mi osservava silenzioso con un’aria di disapprovazione.

“Ad una certo punto della mia vita – stava dicendo Jillian – la matematica mi ha stancato. Avevo fatto una buona tesi sulla geometria differenziale e potevo aspirare ad un posto come ricercatore. – ora fissava il pavimento con lo sguardo senza riavviare i capelli che le coprivano quasi completamente la parte superiore del volto – Un giorno ho letto a mia nipote Alice nel paese delle meraviglie. È stata una vera scoperta. Ovviamente l’avevo già letto quando era bambina, ma, mentre lo rileggevo a voce alta per mia nipote, mi sono resa conto che quello non era un libro per bambini. Ho avuto l’impressione che Carroll volesse dire qualcosa d’altro che non riuscivo ad afferrare. È stato un vero colpo di fulmine.” Si interruppe, rialzando il viso verso di me e scostando i capelli dal volto, come se avesse avuto paura di essersi lasciata trascinare da quel ricordo.

“Sa che Carroll credeva negli spiriti? – domandai ripensando all’intervento sul soprannaturale del giorno prima. Lo sapeva. “Carroll – raccontò – non ha mai smesso di stupirmi; la logica era per lui anche uno strumento per giustificare le sue opinioni, giuste o sbagliate che fossero. Se lei lo avesse criticato perché credeva nei fantasmi, le avrebbe risposto è impossibile dimostrare che i fantasmi non esistono.”

Le domandai se credesse davvero che qualcuno poteva prendere seriamente in considerazione la possibilità che i fantasmi esistessero solo perché era impossibile dimostrare che non esistevano. “Lei evidentemente no – rispose – ma Carroll era speciale. E forse desiderava anche che gli spiriti esistessero.”

Anche Kurt stava ascoltando con attenzione. Jillian si mosse sulla poltrona. La gonna del tallieur era salita ancora un po’, ma non guardavi le sue gambe; stavo pensando a quello che aveva detto.

“Ci sono – continuò, mettendomi una mano sul braccio – dei problemi ancora aperti nella logica, che sconfinano nella filosofia; ci rifletta un attimo e si accorgerà che tanta gente crede in verità che, in fondo si reggono solo sul fatto che è impossibile dimostrare logicamente la loro falsità.”

Qualcuno aveva acceso le luci della hall. Cominciava già a fare buio. Una dozzina di congressisti si aggirava attorno al bar con l’aria di chi non ha nulla da fare. Dall’aula delle conferenze arrivava la voce del relatore di turno. Kurt domandò se avremmo cenato insieme. Voleva parlare dei suoi articoli. Proposi di cenare assieme. Non poteva; quella sera aveva promesso di uscire con dei colleghi americani. Ma perché non incontrarci il giorno successivo a colazione? Si alzò,; la seguii con lo sguardo finché sparì fra la folla di congressisti che aveva abbandonato la riunione. Kurt decise di andarsene in camera e restai solo. Rimasi seduto per qualche minuto pensando a Jillian Barnes. Il telefono portatile aveva preso a squillare. Era Charles.

Suggeriva di fare una passeggiata prima di cena. L’ufficio meteorologico annunciava una schiarita per quella sera. Diedi un’occhiata fuori. Effettivamente stava spiovendo. Era una buona idea. Lorenza non aveva ancora chiamato. “Allora – suggerì – fra mezz’ora in Leicester Square.”

Arrivando lo scorsi da lontano. Stava osservando i cartelloni di un cinema. Si voltò verso di me quando ero ancora a 50 metri da lui. Come diavolo avesse potuto accorgersi della mia presenza non lo capii. Comunque lo salutai senza chiedere spiegazioni. Portava sempre lo stesso completo nero, il cappotto dello stesso colore.

“Buon pomeriggio, amico mio come va il suo congresso?” mi salutò prendendomi sottobraccio. Stavo perdendo una sessione dopo l’altra, all’ultimo momento trovavo sempre qualcosa di meglio da fare: “Oggi ho sfogliato le memorie di un mangiatore d’oppio di De Quincey. Volevo capire se 100 gocce di laudano fosse una dose mortale – raccontai – Sembra proprio di no, ma domani dovrebbero consegnarmi la copia di un saggio di un tale Dr. Day; troverò, credo, una conferma.”

Secondo lui avrei dovuto fare il detective piuttosto che il professore di letteratura. Io rimanevo convinto che l’inchiesta del Coroner sulla morte della Siddal era stata condotta in modo singolare, che Ford Maddox Brown era sempre stato presente, ma nessuno aveva pensato di interrogarlo. Quando stavo ricominciando a parlare della fiala di laudano e delle incoerenze delle dichiarazioni dei testimoni, Charles mi interruppe. “Elisabeth è morta in ogni caso da più di cento anni. Sono morti tutti: Rossetti, Marshall, Hutchison, Ford Maddox Brown. In ogni caso.”

Ci incamminammo verso Piccadilly Circus.

“Ma forse – risposi scherzando – i loro fantasmi sono ancora in giro, almeno secondo lei. Potremmo organizzare un seduta medianica e scoprire come è andata.” Volevo provocarlo. Mi fissava con uno sguardo vuoto in cui mi sembrò di intravedere un senso misto di delusione e aggressività.

Si fermò guardandosi attorno come se stesse decidendo in quale direzione andarsene. Quando si voltò di nuovo verso di me, quella espressione era scomparsa; era di nuovo calmo, il suo sorriso era ancora una volta gentile. Solo gli occhi sembravano esprimere una certa malinconia. “Lei non crede ai fantasmi. Se mai ne incontrerà uno non saprà riconoscerlo. Crederà che si tratti di un uomo o di una donna.”

“In qualche film ci sono anche fantasmi che credono di essere persone vive.”

Sorrise di nuovo stropicciando i guanti: “nessuno può provare che i fantasmi non esistono, e neppure che esistono. Deve rassegnarsi a questa situazione. Le parrà strano, ma le cose stanno esattamente così.” Mi ricordai di Jillian: “qualcuno può desiderare che esistano.”

“In quel caso i fantasmi esisteranno, almeno per lui”

“E farà soldi a palate come medium.”

“Non necessariamente”

Poi continuò “immagini per un attimo che i fantasmi possano prendere la forma di uomini o di donne, e che lei li incontri senza accorgersene che sono spiriti…” Lo interruppi proponendo di lasciar cadere il discorso sui fantasmi. Era evidente che non ci saremmo mai trovati d’accordo.

Gli raccontai invece di Jillian.;anche lei aveva parlato di fantasmi. “Dunque – commentò Charles – è restata delusa dalla matematica e dalla logica. Può capitare. Alla fine si scopre che in fondo sono due scienze chiuse in sé stesse. Sono destinate a restare strumenti per far qualcos’altro. Qualcuno ci costruisce teorie scientifiche, altri programmi di computer. Fare della logica è un po’ come fabbricare badili, picconi o zappe; ognuno li usa poi per costruire case, scavare miniere o coltivare l’orto. Non ha altro scopo che servire a qualcuno che spesso le usa molto male.”

“Eppure i computer e le teorie scientifiche hanno permesso all’umanità di fare grandi progressi” risposi senza convinzione, schivando un paio di ubriachi che camminavano nella direzione opposta.

“Il mondo ruota attorno al logico: quello fisico sembra assoggettarsi a certe leggi che rispettano in qualche senso il linguaggio della matematica. Sorprendentemente devo aggiungere. Sfortunatamente la fisica spiega troppo poco.”

“Ma spiegherà sempre di più” aggiunsi.

Si fermò per un attimo, come per dar enfasi alle sue parole: “Lei crede?”

Eravamo arrivati a Piccadilly Circus quando Lorenza mi chiamò per dirmi che avrebbe ricevuto copia dei carteggi di Gabriele Rossetti nel giro di pochi giorni.

“Forse risolveremo il mistero della mancata diffusione del libro di Gabriele Rossetti. Hanno trovato le lettere che si sono scambiati lui ed Hookham Frere attorno al 1840”.

“Glielo avevo detto che dovrebbe fare il detective.”

A Piccadilly rullavano i tamburi. Un gruppo di ragazzi eccentrici stava esibendosi sul marciapiede. Facevano un rumore d’inferno, ma con un gran senso del ritmo, i bassi rullavano ritmicamente ed ossessivi mentre i toni più alti descrivevano a tempo variazioni piuttosto complicate, sembravano andar per conto loro, ma, dopo un attimo, ritornavano a coordinarsi col ritmo base dei tamburi più grossi. I tassisti facevano del loro meglio per non investire i turisti che attraversavano le strade di corsa, a frotte. Non mancavano neppure i soliti tipi strani, appoggiati alle colonne, con l’aria di aspettare qualcuno che non arriva mai.

Ripresi a parlare di Jillian e delle sue ricerche. Era così interessato che dovetti raccontargli tutti i dettagli della nostra conversazione nella hall dell’Hotel. Lui ascoltava. Talvolta sembrava approvare ma di quando in quando scuoteva la testa mostrando di non essere d’accordo.

Alla fine disse di essere sorpreso che alcuni ricercatori si dedicassero esclusivamente a studiare Lewis Carroll.

“Dicono che fosse un uomo piuttosto laconico, tendenzialmente misterioso e piuttosto originale. Se ho ben capito non è facile sapere cosa pensasse – precisai sorridendo – un tipo come lei!”

Scoppiò a ridere.

Raccontai la strana storia dei diari censurati dalla famiglia subito dopo la sua morte, e della fretta con cui il fratello aveva distrutto la maggior parte dei manoscritti, lettere, appunti, praticamente ogni tutti i documenti personali.

Ebbi la netta impressione di avergli raccontato qualcosa che conosceva molto meglio di me. “Anche questo è un mistero. – aggiunsi- mi sono spesso domandato perché i suoi discendenti, ottanta anni dopo la morte di Carroll, ancora si siano rifiutati di rivelare cosa stava scritto sulle pagine del diario che avevano fatto sparire.”

“Non vedo dove sia il mistero” commentò.