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Presentimento

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Capitolo 1: Il Silenzio del Mondo

L’aria era fredda e sottile, e il vento portava con sé il sapore della cenere e della polvere. Robert chiuse gli occhi per un attimo, ascoltando il profondo silenzio che avvolgeva la terra. Dopo lunghi mesi passati nel suo rifugio sotterraneo a sopravvivere all’inverno nucleare, quella quiete era la cosa più strana di tutte.

Guardò la sua motocicletta, un mostro d’acciaio e gomma che lui stesso aveva riparato e amato. Era l’unica cosa che funzionava ancora in quel mondo rotto. Con un profondo respiro, Robert decise: era ora di uscire, di cercare altri sopravvissuti, di non essere più solo.

Il motore ruggì, rompendo il silenzio morto del deserto. Robert partì, lasciandosi alle spalle la sicurezza della tana. Guidava per ore, attraverso paesaggi piatti e grigi, sotto un cielo che non era più veramente blu.

All’improvviso, in lontananza, vide una figura. Era piccola e tremante, e camminava a fatica nella sabbia. Robert avvicinò la moto con cautela. Era un uomo, vestito con una tuta logora ma di buona qualità, diversa dai normali stracci dei sopravvissuti. L’uomo alzò una mano debole, i suoi occhi pieni di una stanchezza infinita.

Dialogo:

«Fermati… per favore», sussurrò la figura con voce roca.

Robert spense il motore e scese, tenendo una mano vicino alla spada che portava sempre sulla schiena.

«Chi sei?«chiese Robert.

«Mi chiamo Kennet...vengo… vengo dalla Centrale», disse l’uomo, cadendo in ginocchio. «Sono scappato. Non ce la facevo più… quella vita… non era vivere. Per favore… ho una sete terribile… dammi da bere, ti prego».

Robert lo osservò per un momento. Vedeva la disperazione sincera nei suoi occhi. Aprì uno dei suoi contenitori e gli offrì una bevanda calda e scura.

«Ecco. Bevi. È mate. Ti darà forza».

Kennet bevve con avidità. Un’espressione di sorpresa gli illuminò il volto.

«È… buono. Caldo. Grazie».

Dopo che Kennet si fu ripreso un po’, Robert gli parlò della sua missione.

«Io cerco altri come noi. Sopravvissuti. Non voglio più nascondermi. Voglio trovare persone, costruire un luogo sicuro, una fortezza dove poter ricominciare. Dove possiamo vivere in pace. Hai una moto?»

Kennet annuì, indicando un punto all’orizzonte. «Sì, è laggiù. Si è rotta, non so ripararla».

«Io so come fare», disse Robert. «Uniamoci. Insieme abbiamo più possibilità di vivere».

Kennet, ora con speranza, accettò. Dopo aver riparato la moto di Kennet, i due partirono insieme. La loro destinazione era una città abbandonata che sulle vecchie mappe era chiamata «La Nostra Missione». Forse lì avrebbero trovato qualcuno.

Ma la loro speranza durò poco. Appena arrivati ai primi edifici della città, un gruppo di figure aggressive e sporche, i «selvaggi», uscì dalle macerie. Erano armati di clave e coltelli rudimentali. Attaccarono senza dire una parola.

Robert non perse tempo. Con un movimento fluido, estrasse la sua spada lunga e lucida. La lama luccicò sotto la luce fioca. Kennet si mise in difesa con un pezzo di metallo, ma era chiaro che non era un combattente.

Un selvaggio corse verso Robert urlando. Robert si spostò di lato con agilità e con un colpo preciso della spada gli fece cadere l’arma di mano. Un altro attaccò da dietro, ma Robert lo sentì, si girò e bloccò il colpo con l’elsa della spada, per poi colpirlo con il calcio dell’arma. Non li uccise, li neutralizzò solo. La sua abilità con la spada era incredibile; era come una danza mortale in mezzo al caos. In pochi minuti, tutti i selvaggierano a terra, disarmati e senza più voglia di combattere.

Capitolo 2: La Scelta

Il respiro affannoso di Kennet era l’unico suono dopo il rumore della battaglia. Gli altri selvaggi

giacevano a terra, confusi e sconfitti, ma vivi. Robert non ne aveva ucciso nessuno.

Robert si avvicinò a loro, la spada ancora in mano ma non in posizione di attacco. I suoi occhi erano seri ma non crudeli.

«Ascoltatemi!» disse, e la sua voce era chiara e forte nel silenzio. «Io non vi voglio fare del male. Non voglio violenza. Non voglio guerre. Abbiamo già perso tutto per questo».

I selvaggilo guardavano, alcuni con paura, altri con diffidenza.

«Anch’io voglio solo sopravvivere», continuò Robert. «Ma non da solo. Non come animali.

Voglio costruire un mondo di pace, un mondo in cui viveremo in solidarietà, aiutandoci l’uno

con l’altro. Per questo vi chiedo: unitevi a me. Costruiamo insieme qualcosa di nuovo. Un futuro. Andiamo».

Ci fu un momento di silenzio profondo. Poi, uno dopo l’altro, alcuni selvaggisi alzarono.

Gettarono a terra le loro armi rudimentali e fecero un passo avanti. La proposta di Robert aveva toccato il loro cuore. Volevano provare a sperare di nuovo.

Altri, invece, scossero la testa. Si alzarono e si allontanarono senza dire una parola, tornando tra le macerie della città morta. La paura era ancora troppo forte per loro.

Tra coloro che erano rimasti, un giovane uomo si fece avanti. Era diverso dagli altri: i suoi occhi erano più lucidi, e il suo sguardo era curioso e intelligente, non solo arrabbiato o

spaventato. «Io mi unisco a te», disse con voce ferma. «Mi chiamo Luis. Anche io… anche io sogno un

mondo diverso».

Robert annuì, un piccolo segno di speranza nel suo cuore. Ora non erano più solo due.

Erano un gruppo. Con Robert, Kennet e Luis in testa, il piccolo gruppo di sopravvissuti lasciò La Nostra Missione, pronti ad affrontare insieme le incertezze del mondo desolato.

Capitolo 3: La Fabbrica di Sogni e Acciaio

Il campo base ai piedi della collina era un piccolo brulichio di attività. Luis, con gli occhi pieni

di una luce che Robert non gli aveva mai visto, disegnava mappe e progetti nella polvere

con un bastone.

«Qui, sulla cima della collina, costruiremo le mura», spiegava Luis, mostrando i suoi schizzi.

«La vista è perfetta, possiamo vedere qualsiasi pericolo in arrivo. Sono un architetto, so

come renderla forte e sicura. Ma c’è un piccolo problema: i materiali. Abbiamo bisogno di

cemento, legname e soprattutto, molti mattoni».

Kennet, che stava controllando le moto, si pulì le mani con un straccio. «Mattoni…»,

mormorò, pensando a lungo. Poi, si illuminò. «Me lo ricordo! A circa quindici chilometri da

qui, verso est. C'è una vecchia fabbrica. Prima della Grande Luce, produceva mattoni. Forse

lì possiamo trovare qualcosa di utile».

Robert e Luis si scambiarono un’occhiata determinata. Senza perdere tempo, salirono sulle

loro motociclette e partirono nella terra desolata, diretti a est.

Dopo un’ora di viaggio, la sagoma di un grande edificio apparve all’orizzonte. Era una

fabbrica abbandonata, con finestre rotte e muri scuri. Ma ciò che colpì Robert e Luis fu il

colore: molti dei mattoni sparsi per terra erano di un bellissimo colore turchese, come il cielo

di un mondo ormai dimenticato.

Mentre esploravano i grandi spazi vuoti della fabbrica, pieni di polvere e macchinari

arrugginiti, Robert parlò a Luis dei suoi sogni.

«Questi mattoni…», disse Robert, prendendone uno in mano. «Non serviranno solo per

costruire muri. Serviranno per costruire un simbolo. Un mondo nuovo, senza la violenza che

ha distrutto il mondo anteriore. Le potenze nucleari hanno devastato l’umanità con la loro

avidità. Ma noi… noi siamo la resurrezione dell’umanità. Possiamo costruire un mondo

diverso, senza il desiderio di sfruttare gli altri».

Luis annuì, ascoltando ogni parola. «È un sogno bellissimo, Robert. Ma è molto difficile

cambiare la natura umana».

«Forse», rispose Robert. «Ma dobbiamo provare…»

Le sue parole furono interrotte da voci aggressive. Un gruppo di una decina di selvaggi

emerse dalle ombre della fabbrica, armati di tubi di ferro e coltelli.

«Fermi!«urbò il loro capo, un uomo grande e con una cicatrice sul viso. «Questo è il nostro

territorio! Andatevene!»

Luis impallidì. «Li conosco…», sussurrò a Robert. «Sono del mio stesso vecchio villaggio. Sono pericolosi».

Robert si mise immediatamente in posizione di difesa, estraendo la sua spada lunga.

«Questo territorio non è di nessuno. Siamo qui in pace, solo per prendere dei mattoni».

Ma i selvaggi non vollero ascoltare. Attaccarono tutti insieme. Robert combatteva come un

leone, la sua spada era un lampo d’argento che parava colpi e disarmava gli avversari. Ma erano troppi. Luis provò ad aiutare, usando la moto per distrarre alcuni di loro, guidandogli intorno, ma non era un combattente. Un colpo ben assestato lo fece cadere a terra.

Robert, distratto dalla caduta di Luis, ricevette un forte colpo alla mano da una clave. La sua spada volò via e lui cadde in ginocchia, stringendo la mano ferita da cui scorreva sangue. Il capo dei selvaggi si avvicinò per finirlo, con un sorriso crudele. Robert chiuse gli occhi, pensando che fosse la fine.

All’improvviso, un grido chiaro e forte risuonò nella fabbrica: «Lasciateli stare!»

Robert aprì gli occhi. Dal lato opposto della fabbrica era apparso un nuovo gruppo. Erano donne. Donne armate di lance e spade, con gli sguardi duri e determinati. Alla loro testa c’era una donna bellissima, con lunghi capelli rossi come il fuoco e occhi verdi che brillavano di determinazione. Senza paura, si lanciò nella mischia. La sua abilità con la spada era incredibile, veloce e precisa. In pochi attimi, il gruppo di selvaggi, sorpreso e confuso, fu messo in fuga.

La donna dai capelli rossi si avvicinò a Robert, che era ancora a terra.

«Chi siete voi?» chiese lei con un tono di voce pieno di curiosità, non di aggressione.

Robert, ancora sbalordito, si alzò a fatica. «Io sono Robert. Lui è Luis. Stiamo… stiamo cercando di costruire un posto sicuro. Un luogo dove le persone possano vivere in pace, senza violenza, aiutandosi a vicenda. Vogliamo ricostruire, non distruggere».

Mentre parlava, le altre donne si avvicinarono. Una, di nome Natalia, con capelli castani scuri e intensi occhi azzurri, ascoltava con interesse. Un’altra, Oxana, aveva una bellezza sorprendente: capelli bruni come la terra bagnata, occhi grandi e profondi color marrone caldo e una pelle bianca e luminosa, come la porcellana. Anche lei ascoltava le parole di

Robert, e un’espressione pensierosa le illuminò il volto.

Sasha, la donna dai capelli rossi, ascoltò il suo discorso sui valori e sulla speranza. Un

sorriso finalmente apparve sulle sue labbra.

«Queste sono parole che non sentiamo da molto tempo», disse. «Siamo sopravvissute da sole, ma sopravvivere non è vivere. Le tue idee… ci piacciono. Mostraci questo posto sicuro».

Robert e Luis, pieni di nuova speranza, annuirono. Le donne recuperarono le loro

motociclette, potenti e rumorose come quelle degli uomini. «Allora, guidaci», disse Sasha, salendo sulla sua moto.

Robert salì sulla sua, stringendo il manubrio con la mano ferita, ma con il cuore più leggero

che mai. Ora non erano più solo un piccolo gruppo. Erano una comunità in crescita. E guidò

tutti, il suo piccolo esercito di speranza, verso la collina che sarebbe diventata la loro casa,

la loro fortezza, il loro futuro.

Capitolo 4: I Pilastri della Nuova Alba

In due mesi, la cima della collina si era trasformata. Il rumore del lavoro, martelli su acciaio, seghe su legname e voci che si incrociavano, aveva agito come un richiamo. Attirati da quel suono di vita e ricostruzione, piccoli gruppi di sopravvissuti erano emersi dalle loro tane sotterranee, dai bunker dimenticati e dalle macerie. Avevano abbandonato la sicurezza dell’oscurità per unire le loro forze alla luce del giorno, attratti non solo dalla promessa di mura sicure, ma da quella, più potente, di una comunità.

Un vasto piazzale era stato liberato dalle macerie, e lì, una mattina, Robert radunò tutti. Di fronte a lui c’erano volti segnati dalla fatica, ma anche illuminati da una speranza che non si vedeva da tempo. C’erano i primi compagni, Kennet, Luis, Sasha e le sue guerriere, e ora decine di altri, uomini, donne e persino alcuni bambini, che lo guardavano in silenzioso attesa.

Robert parlò con voce chiara, che portava il peso del passato ma la determinazione per il futuro.

«Non stiamo solo costruendo muri», iniziò, «stiamo costruendo una società basata su valori e principi morali. I nostri mattoni turchesi saranno le fondamenta di un mondo nuovo, e questi saranno i pilastri che li terranno uniti:

Primo: Siamo un gruppo di persone che vuole un mondo senza violenza, senza paura, basato sulla solidarietà. Tutti lavoriamo insieme e facciamo tutto in accordo alle nostre possibilità. Ognuno dà ciò che può, e in cambio, nessuno sarà lasciato indietro.

Secondo: L’organo supremo di governo è il Consiglio Direttivo. I membri dirigenti si eleggono ogni anno. Quando ci sono problemi importanti, si decide a votazione diretta. Il Consiglio prende le decisioni più cruciali, di vita o morte e sopravvivenza. Ma le altre decisioni, quelle che costruiscono la nostra vita quotidiana, si discutono con tutta la gente. La vostra voce conta.

Terzo: Tutti siamo obbligati a difendere la fortezza in caso di attacchi. Siamo pochi e non possiamo permetterci un esercito regolare. Un esercito permanente, inoltre, contraddice i nostri principi umanistici. Ma il nostro scopo non è combattere. Cercheremo sempre, in ogni modo, la possibilità di evitare la guerra. La guerra è, e deve rimanere, l’ultima opzione, quando ogni altra via è chiusa.

Quarto: Stiamo contro le classi sociali, i clan, le caste. Qui non ci sono capi per diritto di nascita o privilegi. Siamo tutti eguali. Il valore di una persona sta nelle sue azioni, non nel suo passato.

Quinto: Non abbiamo una religione ufficiale. La fede è una questione privata del cuore. Ognuno è libero di professare la propria, ma nessuno dovrà mai imporre la propria religione agli altri. Il rispetto è la nostra unica dottrina.»

Quando Robert finì, un applauso spontaneo e commosso si levò dalla folla. Le sue parole non erano solo regole, erano una promessa di redenzione.

Mentre la folla iniziava a disperdersi, Luis si avvicinò a Natalia, che era rimasta a osservare la scena con i suoi intensi occhi azzurri.

«Che ne pensi?» le chiese Luis, con un sorriso un po’ insicuro.

Natalia lo guardò con un bagliore di ammirazione sul volto. «Robert… mi ispira. Le sue parole danno un senso a tutto questo. A tutta la nostra sopravvivenza.»

Luis, sentendo un pizzico di gelosia mista a desiderio di approvazione, provò a scherzarci su. «Beh, forse io sono più interessante di Robert. Ti andrebbe di prendere un caffè? So dove hanno trovato dei chicchi quasi intatti.»

Natalia gli rivolse un sorriso gentile ma distante, scuotendo la testa. «No, grazie. Ho molte cose da fare. I turni di guardia non si organizzano da soli.»

Si allontanò con il suo passo deciso, lasciando Luis solo. Lui rimase lì, il suo sorriso che svaniva mentre la guardava andare. Una morsa di delusione e tristezza gli strinse lo stomaco. In mezzo a una folla di persone, in un giorno di così grande speranza, Luis si sentì improvvisamente, e dolorosamente, solo.

Capitolo 5: Conversazione al Caffè «Rose Rosse»

In un angolo del rudere che avevano ribattezzato «Caffè Rose Rosse», dove un cespuglio di rose selvatiche cresceva tenacemente contro un muro diroccato, Sasha, Natalia e Oxana si erano ritagliate un momento di pace. Davanti a loro, tre tazze fumavano, emanando il leggero profumo erbaceo del tè verde.

Sasha, con un’espressione pensierosa, osservava l’accampamento in lontananza. «La fortezza cresce», commentò, «ma dobbiamo pensare oltre le mura. L’economia, per esempio. Le persone lavorano con entusiasmo ora, ma cosa le spingerà a farlo tra un anno? Manca un incentivo strutturato.»

«Che intendi?» chiese Oxana, soffiando delicatamente sulla sua tazza calda.

«Intendo che scambiare un turno di guardia con una razione extra di cibo non basterà per sempre», spiegò Sasha, con la pragmaticità della contabile che era. «Dobbiamo produrre qualcosa di valore, qualcosa di stabile. Il mio prossimo progetto, e sarà ambizioso, è la fonte di energia solare. Con energia pulita e affidabile, potremmo avere officine, conservare i medicinali, illuminare le strade… sarebbe un vero salto di qualità. Ma servono materiali rari, competenze…»

Natalia, che aveva ascoltato in silenzio, sorseggiò il suo tè. «Robert direbbe che è proprio il tipo di sfida che ci unirà», disse mentre i suoi occhi azzurri si illuminavano. «Lui non vede solo muri, vede un simbolo. Parla di valori, di un futuro. È… ispirante.» La sua voce si fece più sommessa, quasi sognante. «Domani, voglio andare a dipingere i paesaggi verso la vallata. Voglio catturare com’è adesso, prima che noi lo cambiamo. Sarà una testimonianza.»

«Oh, che bella idea!» esclamò Oxana con il suo viso dai lineamenti delicati animandosi. «Potrei persino comporre una canzone mentre dipingi! Una canzone sul silenzio che sta scomparendo, sostituito dalle voci e dai martelli. Anche quello è un tipo di lavoro, no? Lavorare per l’anima.»

Sasha sorrise, ammorbidendo il suo sguardo determinato. «Vedete? Questo è ciò che intendo. La tua pittura, Natalia, e le tue canzoni, Oxana, hanno un valore. Non solo per lo spirito, ma un giorno, forse, potrebbero diventare parte della nostra economia, del nostro scambio con altre comunità. Dobbiamo costruire una società, non solo un rifugio.»

«Prima, però, costruisci la tua centrale solare, Sasha!» disse Oxana con un sorriso scherzoso. «Non voglio cantare al buio!»

«E io non voglio dipingere al buio», aggiunse Natalia, ridendo dolcemente.

«Va bene, va bene», rise Sasha. «Allora è deciso. Prima l’energia, poi i concerti e le gallerie d’arte. Ma intanto…», aggiunse, abbassando la voce in un tono più confidenziale, «qualcuna di voi ha notato come Luis guarda Natalia?»

Natalia arrossì leggermente. «Luis? È… molto gentile.»

«„Gentile“ è la parola che usi quando non vuoi dire altro», commentò Oxana con malizia. «Ti ha già chiesto di prendere un caffè, vero?»

«Sì, ma… ho rifiutato. C'è troppo da fare.»

«Cara, anche in un nuovo mondo, il cuore ha i suoi turni di lavoro», disse Sasha saggiamente, facendo scoppiare tutte e tre in una risata leggera, un suono gioioso che si mescolava al ronzio della nascente comunità, mentre il profumo delle rose selvatiche le avvolgeva in quel loro momento di semplice, preziosa, normalità.

Capitolo 6: Luci nella Notte

Oxana non era tipo da perdere tempo. Dopo la chiacchierata al caffè, il pensiero di Kennet, con la sua aria tranquilla e competente, non le era uscito dalla testa. Lo trovò mentre sistemava alcuni cavi vicino alla base della torre di guardia, ormai quasi completata.

«Ehi, Kennet», lo chiamò con un sorriso spontaneo. «Mi fai vedere la torre? Dicono che la vista dalla cima sia magnifica.»

Kennet si girò, sorpreso, ma un sorriso gli illuminò subito il volto. «Non l’hai ancora vista? Davvero? Allora vieni, ti faccio da guida.»

Salirono la scala di legno, ancora profumata di resina, fino alla piattaforma superiore. Il mondo da lassù si apriva in un panorama mozzafiato. La luna piena, un disco d’argento perfetto, illuminava la terra desolata, tingendo ogni cosa di una luce magica e spettrale.

«È… bellissimo», sussurrò Oxana, non tanto per il paesaggio, quanto per la vicinanza di Kennet.

«Sì, lo è», rispose lui, guardando non il panorama, ma lei.

In quel silenzio carico di emozione, non ci volle altro. Si avvicinarono lentamente, e le loro labbra si incontrarono in un bacio tenero e intenso, sotto la luce della luna piena.

Proprio in quel momento, mentre Oxana chiudeva gli occhi assaporando quel primo, dolce contatto, qualcosa attirò la sua attenzione. Li aprì di scatto.

«Kennet… guarda!», mormorò, indicando il cielo.

Lui seguì il suo sguardo. In lontananza, una formazione di luci si muoveva veloce e silenziosa. Non erano stelle. Erano aerei. Volavano bassi, come se stessero studiando il territorio, per poi allontanarsi e scomparire nella notte.

«Mio Dio», esclamò Kennet dimenticando la romantica atmosfera completamente. «Dobbiamo avvisare Robert. Subito!»

Scendettero dalla torre di corsa e andarono direttamente da Robert, che immediatamente convocò il Consiglio Direttivo.

Nella sala riunioni, illuminata da lanterne, l’atmosfera era tesa. Robert, Sasha, Luis e gli altri membri ascoltarono il racconto di Kennet e Oxana.

«Sono aerei della Potenza Centrale», disse Luis, subito dopo. «Il mio amico Dima, il programmatore, ne è certo. Per qualche ragione, loro sono sopravvissuti alla guerra. Lui aveva accesso a vecchi database militari prima del collasso.»

«Significa che ci stanno studiando», concluse Robert, serio. «E prima o poi sapranno di noi.»

«Questo potrebbe essere la fine della nostra utopia», commentò Luis, con voce amareggiata.

Robert lo guardò, e un lampo di ispirazione gli attraversò lo sguardo. «Luis… „Utopia“. Bellissima idea. È questo il nome che daremo alla nostra fortezza. Perché è proprio quello che stiamo costruendo, e è per questo che dobbiamo proteggerla a tutti i costi.»

«Allora dobbiamo nasconderla», intervenne Sasha, pratica come sempre. «Se ci trovano, siamo finiti.»

Fu a quel punto che Dima, un uomo silenzioso fino a quel momento, prese un carbone e iniziò a disegnare su una lavagna di legno. «Possiamo ingannarli. Un inganno visivo. Usando teli mimetici e specchi posizionati strategicamente, possiamo fare in modo che dall’alto questa collina appaia come era prima: una distesa di macerie e vegetazione incolta. Dal cielo, non vedranno nulla di sospetto.»

Il piano fu approvato all’unanimità. Tutta la comunità lavorò senza sosta per tutta la notte e il giorno seguente per mettere in atto il sistema di mimetizzazione di Dima.

E funzionò.

Il giorno dopo, gli aerei tornarono. Sorvolarono l’area più volte, ma continuarono la loro rotta senza esitazione. Dalla fortezza, tutti trattennero il respiro, osservando le sagome minacciose che solcavano il cielo.

Sembrava proprio che non li avessero visti.

Utopia era al sicuro. Per ora.

Capitolo 7: L’Orizzonte da Esplorare

Erano passati giorni senza che nessuna luce innaturale solcasse il cielo sopra Utopia. Un senso di sollievo, seppur cauto, si era diffuso tra gli abitanti. Ma Robert sapeva che la quiete non era sinonimo di sicurezza.

Riunì nuovamente la comunità nella piazza principale, battezzata da poco «Piazza della Nostra Utopia». Di fronte a volti ormai più sereni e nutriti di speranza, il suo sguardo era però fermo e determinato.

«Cari amici! Compagni!» esordì, la voce che risuonava chiara nel silenzio attento. «La nostra fortezza è diventata un luogo sicuro. Le nostre mura ci proteggono, i nostri valori ci uniscono. Ma non possiamo, non dobbiamo, rilassarci. Rischieremmo di spegnere lo spirito che ci ha portati fin qui.»

Fece una pausa, percorrendo la folla con lo sguardo.

«Dobbiamo continuare a lavorare, a crescere, a espanderci. E soprattutto, dobbiamo espandere il nostro messaggio di pace. Non possiamo essere un’isola felice in un oceano di ignoranza. Dobbiamo sapere cosa ci circonda, capire se ci sono altri che, come noi, sognano un mondo diverso.»

«Per questo», continuò, «c’è bisogno di una spedizione. Dobbiamo mappare e conoscere la situazione in un raggio di venti chilometri circa dalla fortezza. Dobbiamo cercare risorse, possibili alleati, e comprendere ogni potenziale minaccia. Per questa missione, servono volontari. Servono occhi vigili e cuori coraggiosi.»

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