Capitolo primo
ASTAGATT E LA FORESTA DEGLI INGANNI
In una lontana e sperduta isola dell’oceano Pacifico chiamata Astagatt, viveva il re Mohammed Pascià Sultan, con la sua famiglia, la regina Adeela e i loro due figli maschi: i principi Amir e Akhmed. Il re governava i suoi sudditi con giustizia e magnanimità e per questo gli abitanti dell’isola lo avevano soprannominato “Mohammed il Giusto”.
Sull’isola regnava la pace da molti secoli e gli abitanti dell’unica città, Astagatt, la capitale, vivevano in modo mite e semplice. Qui le occupazioni principali erano la pesca, la pastorizia e l’agricoltura mentre solo i più ricchi e benestanti potevano dedicarsi alle arti, allo sport e alla letteratura. Insomma, l’isola offriva tutto quello che un essere umano poteva desiderare.
Ad ogni modo non era facile raggiungere l’isola di Astagatt perché era circondata dalla cosiddetta “Barriera”; un enorme “muro d’acqua” alto più di trenta metri, frutto di chissà quale strano incantesimo.
Gli abitanti dell’isola si erano ormai abituati a quell’immenso spettacolo che, per tanti secoli, era riuscito a tenere lontano tutti gli indesiderati. Infatti, la “Barriera” poteva essere superata solo per pochi giorni all’anno e, senza una guida esperta, qualunque nave avrebbe fatto, inevitabilmente, naufragio.
Astagatt, in tutto l’arcipelago, veniva considerata come un paradiso sulla terra. Le sue spiagge erano incontaminate, con sabbia bianchissima e finissima; i ruscelli e le piccole cascate d’acqua purissima scendevano dolcemente dai pendii delle colline e la vegetazione, ricca e rigogliosa, offriva una varietà sterminata di frutta esotica, gustosa e buonissima da mangiare.
Cosa si poteva desiderare di più?
Ma le cose belle hanno i loro lati oscuri ed anche Astagatt non ne era immune. Il centro dell’isola, da tempo immemore, incuteva enorme timore tra gli abitanti, proprio lì dove si ergeva maestosa l’unica grande montagna. Tutt’intorno c’era una fitta distesa di alberi secolari che anche la potente luce del sole, a stento, riusciva a penetrare con i suoi raggi. Dal suo strano nome, “La foresta degli inganni”, chiunque poteva intuire che era meglio starsene alla larga.
Un’antica leggenda raccontava che sulla cima di quella montagna, perennemente imbiancata dalla neve, in una grotta buia e fredda, viveva un pericoloso ed unico abitante, la vecchia e malvagia strega Luthien.
In realtà, nonostante il trascorrere dei secoli, fino a quel momento nessuno l’aveva mai vista personalmente ma sull’isola si continuavano a tramandare, di padre in figlio, delle orribili e raccapriccianti storie di cui era stata protagonista Luthien. Gli abitanti, in questo modo, cercavano di conservarne il ricordo anche per evitare che qualche sprovveduto, malauguratamente, potesse avvicinarsi troppo a quel luogo maledetto e cadere preda della vecchia strega.
Solo in un libro era riportata, dettagliatamente, la descrizione della malvagia Luthien, oltre all’elenco dei suoi poteri ed il modo per poterla uccidere.
Il suo nome era “Il Libro dei Ricordi”.
Naturalmente faceva parte della collezione privata dei sovrani e solo ai re e ai loro discendenti che, per secoli, si erano succeduti sul trono dell’Isola di Astagatt, era consentito leggerne il contenuto.
Il libro conteneva una sibillina profezia che recitava, pressappoco, così: “Un giorno non troppo lontano… da un re giusto e sincero… nascerà un giovane e coraggioso principe…. che riuscirà ad attraversare indenne la Foresta degli inganni. Lui sarà l’eletto perché troverà uno speciale e potente talismano… il Diaspro Rosso… che dovrà portare sempre con sé.… ma se questo non avverrà allora lui perirà… come un comune mortale.
Questo prezioso dono ho nascosto nel fondo degli abissi e solo una tragedia sfiorata permetterà… al re giusto e sincero… di ritrovarlo. L’eletto supererà indenne la foresta degli inganni… scalerà la montagna e raggiungerà il nascondiglio segreto di Luthien. Il Diaspro rosso lo guiderà e proteggerà da ogni inganno… ma se lui non la ucciderà… per altri mille anni il potere della strega sopravviverà”.
Da sempre la gente dell’isola fantasticava sugli enormi poteri della vecchia strega Luthien; soprattutto si temevano i suoi incantesimi con i quali riusciva ad attirare, all’interno della foresta degli inganni, tutti gli sprovveduti.
Più di una volta era capitato che qualcuno, spinto dalla curiosità, si fosse avventurato all’interno di quel luogo sinistro e non fosse più tornato indietro.
Questi disgraziati venivano persuasi, da una voce suadente e gentile, ad inoltrarsi sempre di più all’interno della foresta.
“Vieni… vieni da me… non avere paura… qui troverai oro e argento in abbondanza”, ripeteva una cantilena incessante, “vieni… vieni da me… non avere paura… qui troverai l’elisir di lunga vita”.
Le parole della strega erano accompagnate dal suono di una musica irresistibile.
Per quei poveretti non c’era scampo. Senza nemmeno rendersene conto si ritrovavano, addormentati e appesi a testa in giù, nella dimora di Luthien, sulla cima della montagna.
Qui la strega, pazientemente, preparava i suoi disgustosi intrugli. Al centro della grotta vi era un enorme calderone di acqua bollente, pieno di strane spezie ed erbe magiche, di cui si serviva per preparare una succulenta zuppa di carne. Quando la cottura le sembrava giunta al punto giusto vi immergeva le sue vittime ancora vive, le bolliva lentamente e poi le divorava con tutta calma.
Con le ossa, avanzate dal prelibato pasto, si divertiva a fare degli strani amuleti. Quello era il suo passatempo preferito.
Dopo aver ucciso e mangiato la sua vittima di turno, la strega cadeva in un profondo letargo e, per un lungo periodo di tempo, sull’isola, non si sentiva più parlare di Luthien. Il suo risveglio anticipato poteva essere provocato solo da un imminente pericolo che lei, immediatamente, percepiva come minaccia alla sua stessa esistenza.
Ogni famiglia sull’isola aveva subito un lutto a causa della malvagia strega. Solo i re, le loro mogli e i loro discendenti, che si erano succeduti sul trono di Astagatt, sembravano immuni agli incantesimi di Luthien, come se una potente ed invisibile mano li proteggesse. In ogni caso, per non far correre rischi inutili alla popolazione, ogni re aveva sempre raccomandato a tutti di tenersi a debita distanza dalla “Foresta degli inganni” e dalla stessa montagna.
Anche i due principi Amir e Akhmed avevano sempre seguito il consiglio del padre. Non si erano mai avventurato verso il centro dell’isola e si erano limitati ad osservare quegli strani luoghi solo da molto lontano, preferibilmente a bordo della nave ammiraglia “Glorius”.
Per fortuna la popolazione era stata protetta, nei secoli, da colui che tutti, indistintamente, veneravano come un dio: il mago Sekmet.
Con i suoi poteri aveva sempre limitato, con successo, la furia cieca e distruttiva della strega. Senza il suo decisivo contributo adesso, sull’isola, non ci sarebbe stata più un’anima viva. Liuthien con il tempo, si era rassegnata a mangiare, di tanto in tanto, solo qualche abitante dell’isola ed a lasciare, molto raramente, la protezione della sua umida grotta.
Peraltro, il mago Sekmet, di cui nessuno conosceva le sembianze, era stato colui che aveva scritto l’antico “Libro dei ricordi”. Aveva profetizzato l’arrivo dell’eletto, il ritrovamento in mare del potente “Diaspro rosso” e la liberazione dell’isola dalla malvagità della strega Luthien.
Il Diaspro rosso era un potentissimo talismano che aveva realizzato lui stesso, ricavandolo dalla roccia di un meteorite arrivato da chissà quale pianeta del sistema solare e caduto sulla terra milioni di anni prima.
Sekmet vi aveva inciso sopra una speciale formula che l’eletto avrebbe dovuto pronunciare in presenza della strega. Solo la combinazione di questi tre elementi: il talismano rosso, la formula e l’eletto, avrebbe permesso di sconfiggere e uccidere Luthien.
La figura misteriosa del mago aveva acceso la fantasia degli abitanti dell’isola. Si raccontava che, tra i suoi enormi poteri, poteva trasformarsi in chiunque lui desiderasse. Poteva essere un piccolo bambino che giocava sulla spiaggia, una vecchina che tesseva la tela o un contadino che arava i campi. Ad Astagatt tutti avrebbe potuto incontrare il mago Sekmet ma nessuno sarebbe stato in grado di riconoscerlo. L’unico indizio che sembrava rivelare la sua presenza era un forte profumo di rose rosse appena colte dal giardino. Nulla di più.
In effetti, sull’isola c’era un solo abitante in grado di riconoscerlo sotto qualunque forma lui avesse deciso di trasformarsi: la strega Luthien. Anche per questo si teneva a debita distanza sia dal palazzo reale che dalla stessa città, tutti posti che il mago frequentava assiduamente ogni giorno. Gli unici due posti in cui poteva agire indisturbata e che considerava i suoi terreni di caccia erano la foresta e la montagna.
Capitolo secondo
AMIR & AKHMED
Il piccolo Amir era cresciuto libero e spensierato fino all’età di quindi anni e i suoi genitori, Mohammed e Adeela, fino al triste epilogo della loro scomparsa, avevano fatto in modo che il loro primogenito non fosse troppo angustiato dal rigido protocollo di corte e ricevesse un’educazione quanto più consona al suo carattere gentile e socievole.
Amir era continuamente “affamato di cultura” tanto che, quando non era soddisfatto del precettore di turno assegnatogli dal padre, con un pretesto qualsiasi si allontanava dalla sua stanza e, di nascosto, si intrufolava nella biblioteca reale dove sapeva di poter soddisfare la sua sete di conoscenza.
La biblioteca, tra tutti i nascondigli segreti, era il suo posto preferito. Qui poteva leggere, in tutta tranquillità, i suoi amati libri, soprattutto quelli che parlavano di storia. La sua curiosità, il desiderio di conoscenza, gli davano un’energia incredibile e, attraverso quei libri antichi, si immedesimava con gli eroi del passato.
Questo suo volare lontano con la fantasia, a volte, gli faceva perdere la cognizione del tempo e, qualche volta, arrivava in ritardo alla cena reale. Sua madre Adeela, molto più intransigente del marito in fatto di disciplina ed educazione, in queste occasioni era solita ripetere: “Caro marito… anche questa sera tuo figlio Amir è in ritardo!”.
Spesso il re non era in grado neppure di replicare perché la consorte, immediatamente, riprendeva il suo tono accusatorio: “È sempre la stessa storia… questo ragazzo non cambierà mai… ma è tutta colpa tua… sei troppo buono con Amir. Gli lasci fare sempre tutto quello che desidera e poi… vedi… questi sono i risultati. Non capisce che così facendo manca di rispetto ai suoi genitori? Come potrà mai governare un regno… la nostra amata isola… se non incomincia ad assumersi le sue responsabilità?”.
“Nostro figlio… Adeela… nostro figlio… ricordati che non è solo mio figlio”, la interruppe gentilmente il re.
“Forse dimentichi che lui ha esattamente il tuo carattere… è come te da giovane… ma con l’avanzare dell’età inizi a non ricordare… mia splendida regina…”.
Mohammed non finì di concludere la frase che un grande sorriso illuminò il rubicondo viso dell’amatissima moglie che scoppiò in una sonora e coinvolgente risata. Come al solito, il re era riuscito, con una semplice ma efficace battuta, a calmare gli animi.
“Stai tranquilla mio splendore… vado a cercarlo personalmente… sono sicuro che lo troverò nascosto in uno dei suoi posti segreti!”.
“Oh… bene… adesso mi abbandoni anche tu… questa cena sta diventando una tipica serata da famiglia di Astagatt”, lo riprese Adeela, alzando lo sguardo verso il soffitto.
“Su amore mio… non essere arrabbiata!! Farò prestissimo. Prometto. Vedrai che… tra pochi minuti… io e tuo figlio Amir faremo ritorno da te e… tutti insieme… consumeremo questa splendida cena”.
Mohammed si considerava un padre orgoglioso e premuroso.
Quando gli impegni del reame glielo consentivano si fermava a parlare con Amir e, insieme, discutevano ogni cosa, di qualunque argomento.
Amir non era l’unico figlio della coppia reale. Infatti, il principe ereditario aveva un fratello minore, più piccolo di circa due anni, al quale avevano dato il nome di Akhmed, in onore del nonno materno che, alla veneranda età di 84 anni ancora governava, con piglio giovanile ma autoritario, la vicina isola di Cora.
Akhmed, fin dai primi vagiti, dimostrò di avere un carattere forte e determinato. Al momento dell’allattamento agitava vorticosamente le piccole manine e i piedini, in segno di ribellione e respingeva perentoriamente, con calci e pugni, tutte le nutrici che gli si avvicinavano. Desiderava bere il latte solo dal seno della madre, la regina Adeela, che amorevolmente si dedicava alle cure del figlioletto, coccolandolo dolcemente finché non lo vedeva addormentato con un sorriso di soddisfazione stampato sul suo viso già paffutello.
I due fratelli crebbero rapidamente ma con caratteri completamente diversi l’uno dall’altro. Così dolce, gentile e premuroso Amir, tanto più arrogante, chiuso ed introverso Akhmed.
Anche nell’aspetto i due principini erano moto diversi.
Il più grande dei fratelli era longilineo e già alto per quelli della sua stessa età. Aveva un bel visino sul quale spiccavano due bellissimi occhi azzurri e una tumultuosa capigliatura di splendidi ricci neri. Akhmed, invece, cresceva grassottello, con le lentiggini, il naso grosso e i capelli rossi. Inoltre, per distinguersi dal fratello più grande al quale non desiderava affatto assomigliare, si faceva appositamente tagliare i capelli cortissimi dal barbiere di corte, con vivo disappunto dei suoi genitori.
Solo un particolare fisico sembrava accumunare i due fratelli: il colore dei loro occhi. Erano di un grigio-azzurro intenso, cosa che li distingueva da tutti gli altri bimbi dell’isola di Astagatt.
Akhmed, al contrario di Amir, non aveva nessuna passione per l’arte o la cultura in generale. La sua unica occupazione, durante l’infanzia e parte della sua giovinezza, era stata quella di giocare con i soldatini di legno, ad altezza naturale, fatti realizzati dal sovrano, appositamente per lui, dai migliori artigiani dell’isola.
Raramente si poteva notare Akhmed leggere qualche libro, se non quelli che parlavano di navi, di battaglie o di avventurose attraversate degli oceani. Il mare e la navigazione erano le uniche due passioni che univano i fratelli, ma per tutto il resto erano completamente agli opposti, come l’acqua con il fuoco.
In diverse occasioni aveva apertamente manifestato la sua gelosia per il fratello maggiore, che detestava, a suo dire, anche per i suoi modi sempre troppo cortesi e gentili verso i sudditi del regno e il personale di servizio.
Per Akhmed, invece, bisognava mantenere le debite distanze dal popolo e governare con il metodo “del bastone e della carota”.
A volte, a causa del suo cattivo comportamento verso la servitù di corte, veniva punito dal re e confinato nella sua stanza.
In quelle occasioni era solito ripetere a voce alta: “Un giorno tutto questo cambierà. Io sono un principe e nessuno può dirmi cosa devo fare e cosa devo dire. Prima o poi ucciderò quell’imbecille di mio fratello Amir e tutti dovranno temere la mia ira. Mi ricorderò di tutti quelli che oggi mi procurano dolore e… quando sarò sul trono di Cora… la mia vendetta sarà implacabile”.
La regina Adeela, benché restasse colpita dal feroce odio provato dal figlio minore nei confronti del fratello, non ne stigmatizzava le parole. Anzi, accarezzandogli la testa rasata cercava, con pazienza e dolci parole, di riportarlo alla calma. Gli sussurrava che, un giorno non lontano, sarebbe diventato il potente sultano dell’isola di Cora.
Era quello il suo destino, già scritto nelle stelle, unico discendente maschio designato a succedere a suo nonno Akhmed Al Kebir, che regnava con il nome di Modaffer III.
Amir, che amava il fratello più piccolo e gli perdonava tutte le provocazioni e gli scherzi stupidi che era costretto a subire, solo in un’occasione perse il suo proverbiale autocontrollo e si arrabbiò moltissimo con Akhmed. Ciò avvenne quando gli rubò la preziosa e amatissima collezione di vecchi libri di storia e trascorse un’intera settimana prima che si decidesse a restituirgliela.
Fu solo grazie all’intervento, duro e deciso, della regina Adeela, che la questione tra i fratelli fu risolta senza indugio.
Amir, alla consegna dei suoi preziosi libri di storia, riacquistò immediatamente la calma ed il sorriso. Porse amichevolmente la mano verso il fratello, in segno di pace, invitandolo a trascorrere con lui un’intera giornata in cui avrebbero solo pensato a giocare ai soldatini.
Ma Akhmed rifiutò sdegnosamente l’offerta e fuggì, arrabbiatissimo, nella sua stanza, tra le lacrime, meditando eterna vendetta.
Capitolo terzo
IL VENTO DELL’EST
Akhmed, un brutto giorno, ebbe un grave incidente in mare.
Una volta all’anno, in occasione dell’arrivo del vento dell’est, i due fratelli amavano sfidarsi gareggiando su piccole imbarcazioni a vela. Nonostante la giovane età entrambi erano dei marinai provetti.
I loro erano dei veri e propri duelli, ma senza ricorrere all’uso delle spade.
Akhmed era più audace e coraggioso del fratello, ma Amir lo precedeva sempre sul traguardo, inesorabilmente. Grazie agli insegnamenti del capitano di vascello Abdul-Lateef, Amir era, praticamente, imbattibile in questo tipo di gare.
Re Mohammed, prima della partenza, era solito raccomandare energicamente entrambi i suoi figli con queste parole: “Cari ragazzi… oggi gareggerete uno contro l’altro… un po’ di sana competizione non guasta mai e serve a fortificare i vostri caratteri… ma evitate di correre rischi inutili. In caso di pericolo invertite immediatamente la rotta e rifugiatevi… al sicuro… nel porto di Astagatt.
Qui troverete ad attendervi il capitano di vascello Abdul-Lateef che avrà il compito di sorvegliarvi e assistervi e… in caso di necessità… di scortarvi fino al palazzo reale. È tutto chiaro?”.
“Si padre!”, rispondevano all’unisono i ragazzi mentre stringevano la mano al loro genitore.
Come ogni anno tutti aspettavano l’arrivo del vento dell’est che avrebbe permesso alle imbarcazioni, grandi e piccole, di potersi spingere facilmente al largo e attraversare, senza rischi e pericoli, la “Grande Barriera d’acqua”.
Questo era il periodo dell’anno chiamato “Estate dell’Isola di Cora” e durava, esattamente, 15 giorni.
Una piccola finestra temporale permetteva ai sovrani delle due isole più grandi dell’arcipelago, Astagatt e Cora, d’incontrarsi e trascorrere un periodo di vacanza insieme, con le rispettive famiglie. Durante il resto dell’anno l’Isola di Astagatt restava, praticamente, isolata dal resto del mondo.
Con l’arrivo del vento dell’est e pochi giorni prima della partenza della “Grande Flotta Reale”, i due fratelli, Amir e Akhmed, si sfidavano nella tradizionale gara di vela intorno all’isola di Astagatt. Avrebbe vinto chi, per primo, avesse circumnavigato l’isola e raggiunto il porto.
Per i due contendenti la posta in palio era molto alta.
Il perdente avrebbe subito l’onta, per un anno intero, di essere preso in giro dal fratello vincitore, ogni qualvolta ne avesse avuto voglia e senza protestare. Questo poteva avvenire in qualunque occasione: davanti alla corte reale e alla servitù, oppure a dei semplici cittadini.
Il perdente non poteva fare altro che accettare tutto con sportività. Amir, benché avesse vinto ogni regata disputata fino a quel momento, non approfittò mai dell’ambito “premio” e non sbeffeggiò mai in giro l’amato fratello. Anzi, dopo la fine di ogni gara lo incitava a fare meglio e lo consigliava a non arrendersi. In effetti, nonostante le sconfitte, Akhmed possedeva un grande talento per la navigazione.
Amir, il giorno della gara, avvertì uno strano presentimento e, poco prima della partenza, si rivolse al fratello con tono preoccupato: “Akhmed… non senti anche tu qualcosa di strano nell’aria? Il vento… questo vento… non è il solito vento dell’est… forse dovremmo rimandare la gara al prossimo anno. Ho la sensazione che qualcosa di grave stia per accadere”.
Akhmed, che più di ogni altra cosa al mondo desiderava vincere quella regata, per la quale si era allenato intensamente tutto l’anno, interpretò le parole del fratello come una mancanza di coraggio, il timore di perdere la sfida.
“Amir… non dire sciocchezze”, rispose con tono sarcastico, “questo è il solito vento dell’est… non sento nulla di strano… o forse sì… il mio presentimento dice che… che tu sei un cacasotto e questa volta sono sicuro di batterti! Quindi… finiscila di lamentarti e iniziamo la gara”.
Ormai Amir non poteva più tirarsi indietro né rivolgersi direttamente al padre Mohammed per far sospendere la gara.
Il re, nel frattempo, si era già allontanato dal porto per dirigersi al castello reale per il disbrigo delle ultime incombenze burocratiche e amministrative, prima di ordinare, alla flotta reale, la partenza per l’isola di Cora.
Quando le barche dei due fratelli furono perfettamente allineate, la nave ammiraglia “Glorius” sparò il colpo di cannone a salve che decretò l’avvio della gara.
All’inizio tutto sembrò procedere per il meglio e il vento, benché molto forte, non costituì un particolare problema per i due concorrenti. Amir, come al solito, fin dalla partenza era in testa e, di tanto in tanto, provava a voltarsi indietro nel tentativo di individuare la posizione della barca del suo astuto fratello e, così, prevenirne ogni mossa.
Giunto fuori dal porto si affrettò a dirigersi verso quel tratto di mare aperto che conosceva come “il punto di equilibrio”, il posto ideale per sfruttare tutta la potenza del vento dell’est. Grazie a questo prezioso consiglio del capitano di vascello Abdul-Lateef era sempre riuscito a battere il fratello.
Arrivato in mare aperto Amir si accorse, con grande preoccupazione, che il vento dell’est stava cambiando intensità e direzione.
Non solo, ma adesso anche il cielo si era improvvisamente oscurato e la bellissima giornata di sole si era trasformata in pioggia torrenziale. Sembrava che un vero diluvio stesse per abbattersi sulle due piccole imbarcazioni. Anche il mare, inizialmente poco mosso, si stava trasformando rapidamente in un mostro selvaggio, con onde altissime che si stagliavano all’orizzonte, ai limiti della Grande barriera d’acqua.
Per Amir le condizioni del mare erano diventate troppo rischiose per continuare la regata e, in cuor suo, adesso sentiva di aver avuto ragione a voler annullare la gara. Seguendo le istruzioni ricevute dal padre prima della partenza, invertì la rotta e si diresse velocemente verso la sicurezza del porto. Tornando indietro incrociò la rotta del fratello che lo stava seguendo ormai da molto vicino.
“Akhmed…. la gara è finita… dobbiamo immediatamente tornare indietro… verso il porto”, urlò con tutta la forza che aveva in gola, temendo che le sue parole venissero spazzate via dal rumore del vento. Ma, con suo enorme stupore, si accorse che Akhmed non aveva nessuna intenzione di seguirlo verso il porto. In un attimo lo vide allontanarsi nella direzione opposta e, in tutto quel trambusto, riuscì solo a distinguere poche e confuse parole urlate dal fratello: “Sei il solito fifone… cacasotto…”.
Altro non riuscì a capire a causa del forte ondeggiare del mare e per il vento, ormai, fortissimo.
Nel frattempo anche il capitano di vascello Abdul-Lateef si era reso conto del pericolo imminente che incombeva sui due principini e ordinò, all’equipaggio della veloce nave Neptune, di salpare immediatamente per il mare aperto.
Il capitano, con il trascorrere dei minuti, diventava sempre più inquieto, quasi terrorizzato, per quello che stava accadendo sotto i suoi occhi. Era ben consapevole che, in caso di tragedia, sarebbe stato il perfetto capro espiatorio per il re e la regina.
Ben presto la barca di Akhmed si trovò in gravissima difficoltà e, in balia delle onde e del vento, si allontanava sempre più velocemente dalla costa verso la Grande barriera d’acqua.
Amir si rese subito conto del grave pericolo in cui si trovava il fratello e, dopo aver fatto mentalmente dei rapidissimi calcoli nautici capì, sconfortato, che la Neptune non sarebbe giunta in tempo a salvare Akhmed. Per ogni minuto che passava aumentavano le probabilità di un imminente naufragio.
Senza perdere altro tempo invertì nuovamente la rotta e diresse la prua della sua piccola barca in direzione di quella del fratello.
Ora i principini in pericolo erano diventati due e, per il capitano di vascello Abdul-Lateef, si profilava un vero e proprio incubo in caso di disgrazia. Il poverino già si vedeva degradato e fucilato alla schiena per ignominia, legato come un salame sull’albero maestro della nave ammiraglia Glorius.
Amir cercò di raggiungere velocemente il fratello ma, quando fu vicino, non potette fare altro che osservare la povera barchetta di Akhmed capovolgersi ripetutamente, più e più volte, come se un’oscura mano la stringesse con forza e senza la minima intenzione di lasciarla.
Disperato, Amir cominciò ad urlare il nome di Akhmed mentre, con manovre sempre più spericolate, cercava di domare quelle altissime onde del mare, nel difficile tentativo di tenere a galla la sua piccola barca ed evitare di fare la fine del fratello.
Com’era prevedibile, il suo timone cedette all’improvviso a causa dello sforzo estremo a cui era stato sottoposto ed anche la vela si squarciò in più parti, risucchiata verso l’alto in un vortice fortissimo.
Adesso anche Amir era nei guai e non poteva fare altro che sperare in un miracolo che li salvasse entrambi.
Un’improvvisa e potente folata di vento gelido lo fece sobbalzare dalla sua fragile barchetta mentre un’onda alta più di due metri lo investì di lato. La combinazione di queste due forze estreme rovesciò definitivamente la barca e anche Amir fu sbalzato, violentemente, in acqua.
Il principe, con estrema prontezza, fece in tempo ad aggrapparsi ad uno dei tanti relitti che, ormai, disseminavano l’intera area di mare dov’erano avvenuti i due naufragi. Con sua grande sorpresa si accorse che tra quei resti c’erano anche quelli della barca di Akhmed, facilmente identificabili perché tutti dipinti con un vivace colore rosso.
Senza alcuna esitazione s’immerse immediatamente nel disperato tentativo di trovare e salvare il fratello dalle profondità del mare. Amir, nonostante avesse da poco compiuto vent’anni, aveva ancora un aspetto filiforme e, all’apparenza, non sembrava un ragazzo sano e forte. In quella occasione lo aiutarono la sua notevole esperienza nelle immersioni in mare aperto e il fatto che, nel punto del naufragio, il fondale non fosse particolarmente profondo.
Dopo alcuni tentativi infruttuosi riuscì ad individuare la massiccia figura del fratello che, adagiato sul fondo del mare, sembrava apparentemente senza vita.
Con preoccupazione sempre più crescente gli afferrò subito le spalle e provò a riportarlo in superficie nel minor tempo possibile. Durante la difficile risalita la sua attenzione fu attratta da uno strano luccichio. Gli sembrò di intravvedere, a pochi metri di distanza e semi sepolto nella sabbia, un oggetto di metallo di colore rosso intenso, ma non ebbe il tempo per afferrarlo e portarlo via con sé.
La vita di Akhmed era in pericolo e non c’era altro tempo da perdere. Promise a sé stesso che, un giorno, sarebbe ritornato per recuperare quello strano oggetto.
Miracolosamente, entrambi i fratelli riuscirono a risalire in superficie e quando Amir girò lo sguardo in direzione del lontano porto di Astagatt vide l’enorme sagoma del vascello Neptune che, a tutta velocità, stava sopraggiungendo sul luogo del naufragio. In un attimo i marinai più coraggiosi si tuffarono in mare e, con l’aiuto di alcune corde e di una scala, riuscirono a riportare a bordo i due fratelli.
Il medico si occupò immediatamente di Akhmed, le cui condizioni sembravano assolutamente disperate, considerato che era rimasto a lungo sott’acqua, senza ossigeno.
Praticò la respirazione bocca a bocca ed il massaggio cardiaco per diversi minuti, apparentemente senza ottenere alcun risultato concreto. Amir lo abbracciò forte come se fosse stata l’ultima volta e, commosso per la tragica perdita, gli sussurrò all’orecchio: “È colpa mia… è colpa mia fratello… perdonami”.
Colpito dall’attaccamento e dall’amore fraterno del principe, il dottore volle fare un ultimo ed estremo tentativo. Lo girò delicatamente su di un lato e lo colpì ripetutamente alla schiena, all’altezza dei polmoni, con dei poderosi schiaffi.
Akhmed, come se fosse stato morso da una tarantola, iniziò a dimenarsi convulsamente e cominciò a sputare acqua di mare, così tanta da poterne riempire un secchio intero. Amir, immobile, strabuzzò gli occhi e fissò quell’incredibile scena. Come per magia il suo amato fratellino era ritornato dall’aldilà e, senza alcuna vergogna, scoppiò in un pianto liberatorio.
Ben presto la gioia s’impossesso dell’intero equipaggio che si lasciò andare in canti e balli frenetici.
Il capitano di vascello Abdul-Lateef, di solito sempre impeccabile nella sua uniforme bianca, si unì alla ciurma ed iniziò a danzare e abbracciare chiunque gli capitasse vicino. Era ben consapevole di aver evitato una sicura fucilazione. Adesso, probabilmente, lo attendevano una promozione, con relativa medaglia, e un consistente premio in denaro.
Ma le sorprese della giornata non erano ancora finite.
La poderosa ed imprevista tempesta, così com’era iniziata, cessò improvvisamente. Il cielo si rasserenò rapidamente e tornò a splendere un bellissimo e caldo sole. Nel frattempo, anche il mare si era calmato ed era tornato a soffiare il vento dell’est, con la sua tipica e leggera brezza estiva.
Sulla nave tutti, istintivamente, rivolsero lo sguardo verso il centro dell’isola, in direzione della cima della montagna. Qualcuno, a bassa voce, iniziò a sussurrare: “Questa è opera della malefica strega Luthien… spero che qualche coraggioso… prima o poi… riuscirà ad ucciderla”.
L’atmosfera tra l’equipaggio cambiò rapidamente ed uno strano silenzio scese sull’intera nave.
Capitolo quarto
FESTA A PALAZZO REALE
Come un fulmine a ciel sereno era giunta, a Palazzo reale, la notizia del naufragio dei due principini: Amir e Akhmed.
Il re Mohammed e la regina Adeela non persero tempo e, scortati dalla guardia reale, si diressero immediatamente al porto di Astagatt. Qui incontrarono l’ammiraglio Uluç Alì Pascià che, con calma, li rassicurò. I loro figli erano sani e salvi a bordo della nave Neptune e, prestissimo, li avrebbero riabbracciati.
Quando il vascello attraccò nel porto una grande folla di curiosi si era già radunata per assistere allo sbarco dei due principini. L’emozione di tutti i presenti era palpabile nell’aria e la regina, in particolare, aveva gli occhi ricolmi di lacrime.
“Daremo una grande festa di ringraziamento!”, esclamò perentorio re Mohammed.
“Sarà una festa così grande e magnifica che resterà nella storia di Astagatt. Tanto sfarzosa che se ne parlerà per secoli e secoli. Inoltre… tutti coloro che hanno partecipato al salvataggio dei nostri amati figli… riceveranno promozioni e premi in denaro”.
Abdul-Lateef, il capitano di vascello, si affrettò a sbarcare insieme con i due principini. Il re e la regina, incuranti di tutto e di tutti, corsero ad abbracciare i loro figli, ancora visibilmente emozionati per la terribile avventura.
Adeela prese teneramente ad accarezzare il piccolo Akhmed mentre il re fece altrettanto con Amir, suo figlio prediletto.
A “Palazzo Reale” i due fratelli ricevettero tutte le cure e l’amore possibile e per giorni non si parlò più di quel terribile incidente. Dopo una settimana di febbrili preparativi, giunse il giorno tanto atteso.
Nel grande salone delle feste aveva trovato posto l’orchestra giunta appositamente dal Teatro dell’Opera della città.
I musicisti, diretti dal giovane talento di origine bielorussa Vladimir Ovodoc, erano seduti su di un piccolo palco creato per l’occasione. Durante tutta la sera avrebbero allietato gli ospiti suonando vecchi brani dell’opera lirica italiana, alternati a musiche più moderne.
Come voleva la tradizione, in fondo alla sala si ergeva, maestoso, il trono dei sovrani che, seduti nei loro impeccabili vestiti da cerimonia, osservavano la loro variopinta e simpatica corte sollazzarsi con il cibo e i balli.
Anche i principi, Amir e Akhmed, si erano vestiti di tutto punto e, seduti uno accanto all’altro come dei veri fratelli, assistevano divertiti agli improbabili passi di danza dell’ammiraglio Uluç Alì Pascià, tanto temuto e rispettato come comandante quanto poco apprezzato e deriso come ballerino.
Il poveretto, ormai giunto sulla soglia della pensione, in procinto di lasciare il suo prestigioso incarico di “Ammiraglio della Flotta Reale”, non desiderava altro che prendersi il meritato riposo.
Ma era stato trascinato nelle danze dalla sua giovane ed esuberante terza moglie, Suha, una bella e focosa ragazza dai capelli rossi.
Fin da piccola aveva attirato le attenzioni di tutti i ragazzi dell’isola e, crescendo, catturò anche l’interesse del vecchio ammiraglio. Uluç Alì Pascià, nonostante l’evidente differenza di età, volle conoscerla e se ne innamorò all’istante.
Fu il classico “colpo di fulmine”, tanto che le chiese subito di sposarla.
Com’era solito fare negli affari militari, anche in quella occasione non volle perdere tempo e, per evitare un lungo e pericoloso corteggiamento, si recò immediatamente a casa dei genitori di Suha per ufficializzare il fidanzamento.
La ragazza apparteneva ad una rispettata ma modesta famiglia di agricoltori e, per loro, imparentarsi con il potente e ricchissimo ammiraglio, significava entrare a far parte dell’élite dell’isola e migliorare notevolmente il loro ceto sociale.
Suha, che inizialmente era contrarissima alle nozze, presto cambiò idea, quando l’Ammiraglio le fece consegnare una grande cassa ricolma d’oro e gioielli, dal valore inestimabile.
Il loro matrimonio fu celebrato con tutti gli onori e anche i sovrani parteciparono a quell’evento mondano. Com’era prevedibile, alla bella Saha occorsero solo pochi mesi per rendersi conto che il suo era un matrimonio infelice.
Era diventata ricca e rispettata e faceva parte del ristretto gotha dell’isola di Astagatt, ma viveva pur sempre come una reclusa nell’alloggio di servizio dell’ammiraglio, suo marito, sulla nave Glorius. Quello non era esattamente il posto ideale dove vivere una storia d’amore e, spesso, quand’era da sola, pensando di aver buttato via la giovinezza, immergeva nel cuscino il suo splendido viso e si lasciava andare in un pianto a dirotto.
La festa di ringraziamento a palazzo reale era l’occasione giusta per dare sfogo alla sua esuberanza e dimenticare tutte le frustrazioni per quella vita grigia e noiosa. La bella Suha non perse tempo e iniziò subito a scatenarsi con i balli, ma il marito era incapace di tenere il suo passo e di seguirla al ritmo frenetico di quella musica. La moglie, probabilmente per vendicarsi, lo faceva piroettare per tutta la sala e all’ammiraglio, più e più volte, capitò di inciampare nel lungo vestito della consorte.
Le sue buffe movenze suscitarono l’ilarità di tutta la corte reale, compresi il re e la regina, e non solo quella dei principi Amir e Akhmed.
Scoccata la mezzanotte la musica cessò repentinamente e i due sovrani, Mohammed e Adeela, si diressero, con passi lenti e mano nella mano, sull’ampia terrazza antistante la sala del ricevimento. Fuori si potevano ammirare gli originali addobbi, fatti con moltissimi fiori multicolori, che emanavano dolci e delicate fragranze.
Poi fu dato il segnale convenuto e dal mare prese vita uno spettacolo di fuochi d’artificio come da tempo non si vedevano sull’isola. Gli ospiti restarono con il naso all’insù per tutto il tempo e qualcuno, di tanto in tanto, con la mano, ne disegnava le forme geometriche seguendone le prevedibili traiettorie.
Tutto il cielo notturno fu illuminato a giorno ed anche il popolo di Astagatt volle partecipare all’eccezionale evento riversandosi nella piazza centrale della città e dando vita ai tradizionali balli popolari, accompagnati da grandi bevute.
Concluso lo spettacolo dei fuochi artificiali i sovrani e la corte fecero ritorno nella grande sala da ballo. Re Mohammed, giunto al centro dell’enorme stanza, si fermò liberando la sua mano da quella della sua regina, che tornò a sedersi al suo posto.
Poi, con gesto regale appena accennato, chiamò a sé l’ammiraglio Uluç Alì Pascià, che gli si avvicinò in tutta fretta per porsi alla sua destra.
Sembrava che tutto fosse stato studiato fin nei minimi particolari. Giunse, quindi, il Gran Ciambellano di corte che, tra i suoi vari compiti, poteva annoverare anche quello di amministratore del tesoro del Regno di Astagatt.
Con sé, stretto tra le mani, portava uno scrigno d’oro tempestato di diamanti e rubini.
Nella sala scese il più assoluto silenzio anche perché nessuno tra gli ospiti era a conoscenza di quello che sarebbe accaduto da lì a pochi minuti.
Il Gran Ciambellano, lentamente e con estrema cura, aprì lo scrigno d’oro dal quale prelevò un’elegante pergamena, vergata di proprio pugno dal sovrano Mohammed in persona. Poi lesse il documento ad alta voce, ma con la grazia e il contegno che erano propri del suo ruolo istituzionale.
“Che il comandante… capitano di vascello Abdul-Lateef Kafer… si avvicini al centro della sala”, queste furono le sue prime parole alle quali seguì un breve brusio tra gli ospiti.
Il capitano, impassibile e senza mostrare alcuna emozione, si avvicinò al Gran Ciambellano che continuò nella lettura del testo.
“Per ordine dell’eccellentissimo sovrano Mohammed Sultan Pascià viene qui ordinato che… il capitano di vascello Abdul-Lateef Kafer… con effetto immediato… sia promosso al grado di vice Ammiraglio della Flotta Reale e… con tale rango… si trasferisca immediatamente a bordo della nave Glorius per assumerne il comando”.
Nell’udire quelle parole anche l’impettito Abdul-Lateef rimase esterrefatto e, con la coda dell’occhio, cercò tra gli ospiti lo sguardo della moglie Raya per trovare conforto e sostegno.
Ora anche il suo volto stava iniziando a cambiare espressione e potevano notarsi, chiaramente, i segni di una imminente e forte emozione.
Il suo impeccabile contegno di ufficiale di marina cominciava a vacillare sotto gli effetti dirompenti di quelle parole inaspettate.
Il Gran Ciambellano richiuse la pergamena nello scrigno d’oro e lo consegnò nelle mani del Sovrano. Poi si diresse verso il trono e si fermò a lato della regina Adeela che, nel frattempo, in compagnia dei suoi amati figli, stava assistendo all’emozionante scena della premiazione.
Il re Mohammed, con un gesto della mano, invitò Abdul-Lateef Kafer ad avvicinarsi per consegnargli il prezioso scrigno d’oro. Anche l’ammiraglio Uluç Alì Pascià, dopo aver fatto il consueto saluto militare, gli strinse la mano energicamente in segno di rispetto.
Ma la cerimonia non era ancora conclusa.
L’ammiraglio si tolse dal collo il simbolo del suo comando per metterlo intorno a quello del nuovo comandante. Questo era un prezioso e massiccio collier d’oro al centro del quale pendeva un elegante medaglione. Su di un lato vi era impressa l’effige del re Muhammed mentre, sull’altro, erano state incise le seguenti parole: “SAPERE AUDE”, un’antica iscrizione latina che significava “abbi il coraggio di conoscere”.
Solo a quel punto la speciale ed inaspettata premiazione poté dirsi conclusa. La musica tornò ad allietare la serata e tutti i dignitari di corte vollero congratularsi, personalmente, con il nuovo vice comandante della marina.
Ma le sorprese non erano ancora finite.
Il re Mohammed si alzò dal trono e, con tono solenne, pronunciò le seguenti parole: “Io e la regina Adeela vogliamo ringraziare personalmente tutti i presenti per la bellissima serata… organizzata festeggiare la salvezza dei due principi Amir e Akhmed. Per l’occasione desidero comunicarvi che… tra due giorni… la Flotta Reale… con i sovrani e l’intera corte… partirà in direzione dell’Isola di Cora.
I venti dell’est sono propizi e la tempesta è ormai cessata.
Su consiglio dell’ammiraglio Uluç Alì Pascià riteniamo indispensabile sfruttare questi pochi giorni d’estate che ci restano prima che la Barriera del muro d’acqua ritorni ad essere un elemento insuperabile per ogni imbarcazione.
Naturalmente… faremo visita al Sultano di Cora per intensificare e sottoscrivere nuovi accordi… sia commerciali che familiari. Con noi porteremo solo il principe Akhmed e ci imbarcheremo… come tradizione vuole… sulla nave ammiraglia Glorius…, comandata… questa volta… dal vice ammiraglio Abdul-Lateef Kafer”.
Pronunciata l’ultima frase un intenso brusio sembrò impossessarsi della sala.
Ma il re Mohammed, con la mano alzata, fece cenno a presenti di non aver terminato e, quando tutti si furono nuovamente acquietati, con rinnovato vigore, riprese il suo discorso.
“Ad Astagatt resteranno il principe Amir e l’ammiraglio Uluç Alì Pascià… quest’ultimo in qualità di protettore e governatore dell’Isola durante la mia assenza. Dopo gli ultimi terribili eventi credo che sia la decisione più saggia.
Nel caso dovesse succederci qualcosa che ci impedisca… in un modo o nell’altro… di fare ritorno ad Astagatt… saremmo comunque felici di sapere che nostro figlio Amir… l’erede al trono… è sano e salvo ed in buone mani. Pertanto ordino… seduta stante… che si organizzino i preparativi per la partenza e che tutte le navi commerciali al nostro seguito vengano immediatamente caricate con la nostra preziosa Vergara, la spezia della felicità”.
Capitolo quinto
PARTENZA PER L’ISOLA DI CORA
Il giorno della partenza della flotta reale il cielo era limpido e terso come non si era mai visto ed il vento dell’est spirava nella direzione e con la forza giusta. Tutti gli abitanti accorsero al porto perché avevano un parente o un amico imbarcato sulle navi da salutare, e nessuno voleva perdersi quel magnifico spettacolo.
Sull’albero maestro della Glorius venne issato il segnale di formazione e la flotta reale procedette, con cautela, verso l’uscita dal porto.
Quando tutte le navi furono in formazione venne dato il segnale convenuto: tre colpi di cannone.
Alla maestosa scena assistette anche l’ammiraglio Uluç Alì Pascià che, per la prima volta nella sua carriera di marinaio, era costretto a trascorrere a terra e non sulla sua nave, i giorni della traversata annuale. La tristezza dell’ammiraglio fu compensata dalla irrefrenabile felicità della giovane moglie Saha, eccitata al pensiero di trasferirsi, finalmente, nella nuova e splendida residenza che il re Mohammed e la regina avevano voluto donare alla coppia. Questa era un’antica villa, rimodernata a nuovo, ubicata in una posizione privilegiata sull’isola e dotata di ogni confort. Come ulteriore segno di rispetto, il personale di servizio era stato appositamente selezionato dalla regina Adeela.
Era un regalo magnifico e assolutamente meritato per l’ammiraglio, un ringraziamento per tutti gli anni di onorato servizio trascorsi nella marina reale.
Così come per l’ammiraglio, anche i sentimenti del principe ereditario Amir erano contrastanti. Da un lato si rallegrava del fatto di essere rimasto da solo a palazzo reale con la possibilità di girare, praticamente indisturbato, per ogni sala o giardino della tenuta, senza il rischio di essere scoperto e subire i pesanti rimproveri della severa madre Adeela. Ma si sentiva comunque triste perché, in fondo, percepiva già la mancanza del caro fratello Akhmed.
Per prima cosa volle tuffarsi nella lettura dei suoi amati e preziosi libri di storia e, per sentirsi più vicino ad Akhmed, chiese al responsabile delle cucine reali di preparargli, per pranzo, le famose ciambelle di Astagatt, di cui il fratello era ghiotto. Le fece servire sulla grande terrazza antistante il salone da ballo così da poter godere della splendida vista sull’oceano e provare a scovare, sul lontano orizzonte, la sagoma di qualche nave.
Ma la flotta reale aveva già attraversato la pericolosa Barriera d’acqua e, ormai, non era più visibile ad occhio nudo.
All’ora desiderata le ciambelle furono pronte e portate al principe. Quel piatto emanava un intenso profumo di miele e di Vergara, la famosa pianta della felicità che cresceva rigogliosa solamente su Astagatt. La rara pianta aveva fatto la fortuna dell’isola e, grazie alla sua particolare coltivazione, tutti gli abitanti potevano dirsi esperti produttori e agricoltori.
Tutti quelli che avevano a disposizione un piccolo pezzetto di terra coltivavano la radice di Vergara.
In questo modo, non solo la nobiltà, ma anche ogni singolo e intraprendente abitante poteva trarre profitto affidando il proprio prezioso carico nelle competenti e capaci mani del Ministro degli Affari Esteri e della Casa Reale: Idris al-Shafi.
Tutte le navi commerciali, al seguito della flotta reale, erano sotto la sua personale responsabilità. Ogni carico di Vergara, anche il più piccolo, veniva annotato in un apposito registro con il nome del produttore, a cui veniva assegnato un numero personalizzato con il peso e il nome della nave sul quale era imbarcato. L’organizzazione del ministro al-Shafi era molto efficiente e nulla sfuggiva al suo vigile controllo. Poiché tutte le navi potevano superare la Barriera del Muro d’acqua solo per pochi giorni all’anno, la flotta reale faceva scalo, per motivi logistici, sull’isola più vicina: Cora.
Fu qui che il re Mohammed, durante una visita di cortesia al Sultano Modaffer III (Akhmed Al Kebir), conobbe la sua futura moglie e regina. Adeele era la figlia maggiore del sultano e il padre fu ben contento che i due provassero una reciproca e irresistibile attrazione.
Il loro matrimonio assicurò al vecchio Modaffer III diversi vantaggi. Innanzitutto, si imparentava con la potente famiglia regnante l’isola di Astagatt e, in questo modo, trasformava l’isola di Cora in un centro di commercio internazionale della rara pianta Vergara.
Con il matrimonio di sua figlia il furbo sovrano aveva assicurato al suo popolo un luminoso e prospero futuro economico. Infatti, per ogni carico di Vergara sbarcato sull’isola di Cora, il sultano impose una “speciale tassa doganale”.
Ma all’ennesimo aumento di questa impopolare tassa ricevette le energiche proteste diplomatiche del potente e rispettato Idris al-Shafi.
Il ministro, eseguendo gli ordini di re Mohammed, promise al sultano che, in caso di mancata cancellazione dell’ultimo aumento della tassa doganale, la flotta reale di Astagatt non sarebbe entrata nel porto di Cora e si sarebbe ancorata al largo, ben oltre il limite delle acque territoriali dell’isola.
Il Sultano Modaffer III, conoscendo il carattere fermo e irascibile del ministro Idris al-Shafi, ben presto si rese conto che la sua fame di ricchezza, la sua incontrollabile avidità, aveva creato una pericolosa crisi diplomatica e commerciale tra le due isole.
La radice di Vergara, oggetto del desiderio di tutti i popoli delle terre emerse, proprio perché rara, era ricercatissima e, praticamente, si vendeva da sola.
Di questo ne era ben consapevole il sultano.
Infatti, benché la flotta reale di Astagatt fosse rimasta ad aspettare tutto il giorno in mare aperto, ciò non aveva scoraggiato i numerosi acquirenti che erano arrivati da ogni angolo dell’oceano Pacifico.
Il Sultano Modaffer III, mostrando assoluto senso pratico e fiuto per gli affari, decise di ritornare sui suoi passi. In ogni caso, per non perdere la faccia davanti al suo popolo, decretò, unilateralmente, che “l’importo della tassa speciale sulla radice di Vergara” sarebbe stata decisa, di anno in anno, da un apposito consiglio composto dai membri di entrambe le due isole ma da lui presieduto.
Il compromesso escogitato dal sultano produsse gli effetti sperati e la flotta di Astagatt, finalmente, attraccò nel porto di Cora.
Modaffer III, per festeggiare l’avvenimento e dare un segno della sua potenza, fece allestire un’imponente cerimonia ufficiale, con tanto di esercito schierato in parata, alla quale presero parte entrambi i sovrani. L’accordo venne firmato solennemente e, da quel momento, cessò ogni forma di disputa commerciale tra i due regni.
Lo stratagemma del Ministro Idris al-Shafi aveva funzionato e, nonostante non fosse stata cancellata l’odiata tassa, era riuscito a far cessare i continui soprusi del Sultano ed a stabilizzare i traffici commerciali tra le rispettive isole.
Tra tutti i viaggiatori della flotta di Astagatt, la regina Adeela era la più entusiasta. Desiderava rivedere suo padre, le sue sorelle e, cosa ancora più gradita, tutti i posti dove aveva trascorso la sua infanzia e parte della sua gioventù. Più di ogni altra cosa le mancava il gigantesco e bellissimo orto botanico dove, fin da bambina, aveva ammirato fiori e piante provenienti da tutto il mondo conosciuto.
Durante la sua adolescenza, in quello splendido giardino a cielo aperto, aveva vissuto la sua intensa storia d’amore con l’adorato marito Mohammed. Insieme avevano trascorso intere giornate a passeggiare mano nella mano e, complice una gigantesca pianta di Palmira, proprio in quel posto si erano scambiati il loro primo e tenero bacio, al riparo da sguardi indiscreti.
Anche Akhmed era curioso di rivedere suo nonno e tutti i suoi numerosi parenti perché sapeva che un giorno, alla morte del sultano, sarebbe diventato il padrone incontrastato dell’isola di Cora. Nella sua testa già si affollavano piani stravaganti o rischiose imprese da realizzare in un prossimo futuro. Il suo carattere ribelle lo condizionava in tutto quello che faceva e diceva.
Perfino durante il breve viaggio fino a Cora aveva avuto il tempo di litigare con alcuni sottufficiali della nave Glorius che, secondo il suo “modesto parere”, non eseguivano a regola d’arte gli ordini impartiti dal loro comandante.
Dopo la miracolosa salvezza dal naufragio si sentiva invincibile, quasi immortale. In cuor suo credeva che il destino lo avesse risparmiato per offrirgli un futuro fatto di grandi imprese.
Dal naufragio era solito ripetere al fratello Amir: “Un giorno il mio nome sarà temuto e rispettato… non solo qui ad Astagatt o sull’Isola di Cora… ma in tutto l’arcipelago. Spazzerò via… senza pietà… chiunque si metterà sulla mia strada… chiunque sarà un ostacolo tra me e i miei piani… e non avrò pietà né degli amici né dei parenti”.
I giorni di vacanza sull’Isola di Cora trascorsero serenamente tra feste, balli a corte, e lunghe nuotate nel meraviglioso mare corallino.
Il re Mohammed, quando gli fu comunicato che tutto il prezioso carico della radice di Vergara era stato venduto, convocò il vice ammiraglio Abdul-Lateef Kafer e gli ordinò di far preparare la flotta per l’imminente partenza.
Finalmente era giunto il tempo di tornare a casa.
Prima di ritornare sulla nave ammiraglia Glorius, al momento del commiato, i sovrani Mohammed e Adeela convocarono il figlio Akhmed per un colloquio riservato.
“Caro figlio”, esordì il re con la voce commossa, “è giunto il momento tanto atteso… quello per il quale… in tutti questi anni… sei stato addestrato. Il tuo destino è scritto da tempo… sarai il principe ereditario dell’isola di Cora… siederai alla destra del Sultano in tutte le occasioni ufficiali e… alla sua morte… salirai al trono”.
Akhmed, dopo avere ascoltato in silenzio le parole del padre, divenne improvvisamente rosso in volto e, come in preda all’ira, si rivolse alla regina Adeela: “Tu madre… anche tu… dunque… alla fine mi tradisci!!”.
Iniziò a urlare e ad agitarsi come un selvaggio qualunque, cercando di dare l’ennesima cattiva dimostrazione, ai suoi illustri genitori, di quanto fosse poco adatto al ruolo che gli avevano riservato.
Inoltre, cercò di togliersi da dosso tutti i “ridicoli vestiti da cerimonia” come lui spesso, in modo sprezzante e offensivo, si divertiva ad apostrofarli. Ma ben presto si rese conto che la sua inutile sceneggiata non stava dando i risultati sperati.
Improvvisamente, come un esperto attore, cambiò strategia. Smise di urlare e si buttò ai piedi della regina. Con le sue tozze mani le afferrò la caviglia destra e la strinse forte al suo petto, nell’ultimo, disperato tentativo, di commuoverla e farle cambiare idea.
“Madre… non mi lasciare qui da solo… portami a casa con te…” iniziò a supplicarla piangendo.
“Il mio destino non è questo… io non sarò mai il Sultano di quest’isola brutta e inospitale. Il mio destino è quello di diventare il re di Astagatt. Non mettere il nostro amato regno nelle mani di mio fratello… quello stupido… quello sciocco… che sa amare solo i suoi ridicoli libri di storia. Io sono il destino di Astagatt!! Madre… non soccombere ai desideri del re… aiutami a tornare a casa… non abbandonarmi tra gente sconosciuta e ostile”.
La regina Adeela lo guardò con aria severa e indignata, tirò via il suo piede dalle forti e possenti mani del figlio e, con piglio autoritario, lo rimproverò energicamente: “Akhmed… il tuo tempo è arrivato. Sii uomo… comportati da futuro sovrano. Fai in modo che tutti noi… un giorno… potremo essere fieri di te. Dovrai essere d’esempio per tutti e farai in modo di non far ricadere la vergogna sulla tua famiglia. Sii forte… un anno passa velocemente. Ti prometto che con l’arrivo della prossima estate…», ma la regina non fece in tempo a finire la frase che Akhmed si era già rialzato e ricomposto. Con un gesto deciso della mano, fece segno alla madre di aver compreso il suo discorso.
“Va bene madre… mi fido di te… come sempre!”, replicò il principe ormai rassegnato all’inevitabile.
“È vero… il tempo passa rapidamente e un anno corre in fretta. Troverò sicuramente qualcosa d’interessante da fare su questa stupida isola… ma se non ti rivedrò qui la prossima estate… sappi che farò il diavolo a quattro per ritornare ad Astagatt e… destino o non destino… lì resterò per sempre…”.
Il re, che fino a quel momento non era intervenuto ed era rimasto in disparte, fece un segnale con la testa alla regina per farle capire che il tempo era scaduto.
I genitori abbracciarono affettuosamente Akhmed e si diressero verso il porto per imbarcarsi sulla nave ammiraglia Glorius e fare ritorno a casa.
Tutta Astagatt stava aspettando, con ansia, il ritorno della flotta.
Capitolo sesto
IL LIBRO DEI RICORDI
La grande flotta imperiale era partita per l’isola di Cora già da due settimane. Con la vendita del suo prezioso carico, la rara spezia “Vergara”, gli abitanti dell’isola di Astagatt avrebbero trascorso un anno tranquillo e sereno, almeno economicamente. Ma un cattivo presagio aleggiava nell’aria.
Era una notte senza luna e l’oscurità si era impossessata dell’intera isola, avvolgendola in una stretta morsa. Stranamente anche il vento dell’est aveva ripreso a soffiare con vigore e una pioggia torrenziale tintinnava con forza sui vetri della camera da letto di Amir.
Il rumore della tempesta si faceva sempre più forte e il giovane principe, al lume delle candele, non riusciva a dormire. Se ne stava seduto sul letto, immobile, con le gambe incrociate e con lo sguardo fisso sulla parete. Sperava, in cuor suo, che la Grande Flotta fosse rimasta saldamente ancorata nel porto di Cora.
Le condizioni del vento erano troppo rischiose per tentare di attraversare la “Grande barriera d’acqua”.
Amir provò a liberarsi di tutti i cattivi pensieri.
Si sollevò in piedi sul letto e cominciò a saltellare, sempre più forte e sempre più in alto, fino a quando, con il rumore tipico di legni rotti, il suo enorme letto si accasciò sul pavimento con un grande frastuono. Le due guardie imperiali che, fino a quel momento, avevano sonnecchiato davanti alla sua porta, si precipitarono dentro la stanza con la spada sguainata. Immediatamente si resero conto del falso allarme e trassero un profondo sospiro di sollievo. Videro che il principe Amir, disteso ai piedi del letto, rideva a crepapelle.
“Ciao ragazzi…», s’affrettò ad esclamare, “scusatemi ma… questa notte non riesco proprio a dormire. Non sapevo cosa fare e mi sono messo a saltellare sul letto… era divertente ma… come potete vedere… questo è il risultato”.
“Per farmi perdonare…», continuò il principe, “mi accompagnerete giù nelle cucine dove vi farò gustare le mie buonissime ciambelle con miele e Vergara… Oggi ne ho mangiate tantissime… ma credo di averne lasciate in dispensa ancora abbastanza per soddisfare qualunque improvviso assalto di fame notturna”.
I tre si diressero, con passi decisi, fuori dalla camera da letto.
Il principe indossava ancora il lungo camicione bianco con cui era andato a dormire la sera prima e che gli arrivava fin sulle caviglie. Con il suo metro e ottanta camminava impettito ma stretto in mezzo ai due enormi soldati della guardia imperiale. Questi lo sovrastavano di almeno dieci centimetri, perfetti nelle loro impeccabili uniformi d’ordinanza.
Per arrivare alle cucine bisognava percorrere il corridoio che dava anche sulla grande biblioteca reale. Giunti nei suoi pressi il principe ebbe un sussulto e si fermò di scatto. All’improvviso, dal suo angelico volto sparì quel tenero sorriso che lo aveva accompagnato fino a quel momento e, assunto un atteggiamento serio, con tono perentorio, ordinò ai suoi due improbabili compagni d’avventura di aprire la porta della biblioteca.
“Ma noi non abbiamo le chiavi… solo il Capo Bibliotecario può farlo…», i due corazzieri s’affrettarono a replicare, per nulla intimoriti dallo sguardo severo del ragazzo.
“Va bene… allora farò da solo… ma dovete giurarmi di non rivelare a nessuno il mio segreto… nemmeno al re e alla regina quando faranno ritorno ad Astagatt. Quello che state per vedere non sarà mai successo… e adesso giurate sul vostro onore d soldati!”
I due militari si guardarono perplessi ma Amir era pur sempre il loro principe ed il futuro sovrano del regno. Senza perdere altro tempo, uno dopo l’altro, ripeterono ad alta voce: “Lo giuro!”.
Amir s’inginocchiò e, con estrema cautela, spostò un piccolo pezzo di marmo che ornava il bellissimo pavimento del corridoio. Da un piccolo foro, delicatamente, ne estrasse un sacchetto. Quindi, con il tipico atteggiamento di ladro esperto, tirò fuori una chiave d’oro. In pochi istanti aprì l’enorme porta di legno massiccio della biblioteca ed entrò dentro, mentre i due militari furono lasciati fuori di guardia.
L’enorme sala della biblioteca era perfettamente illuminata.
In ogni suo angolo si potevano scorgere centinaia di grandi candele, anche a gruppi di dieci per volta, sistemate con cura nei punti più strategici.
Per evitare il pericolo che potesse scoppiare un incendio erano state raccolte su splendidi lampadari sotto i quali si potevano notare dei grandi vassoi di bronzo che raccoglievano la cera che si fondeva lentamente. Con questo semplice stratagemma nessun libro correva il rischio di essere, anche accidentalmente, colpito dal fuoco. In ogni caso, la sicurezza della biblioteca era garantita da dodici bibliotecari che si alternavano al controllo della sala.
Il capo bibliotecario, “Ermes il greco”, era perfettamente a conoscenza delle intrusioni notturne di Amir in quanto lo aveva sorpreso, più di una volta, a sfogliare con curiosità i volumi che raccontavano la storia dell’arcipelago e dei suoi stessi avi.
Qualche volta se ne era lamentato con lo stesso re Mohammed ma spesso faceva finta di niente purché il principe, dopo la lettura, rimettesse esattamente al loro posto ogni libro consultato.
Ormai erano quasi le due di notte e fuori continuava ad infuriare una tempesta tropicale, con il vento e la pioggia sempre più forti e impetuosi.
Amir, giunto nei pressi della grande finestra della biblioteca provò ad affacciarsi dietro i vetri e, alla tenue luce delle candele, provò a guardare in lontananza cercando di scorgere con lo sguardo l’arrivo della flotta. Ma la notte era troppo intensa e scura e rinunciò immediatamente all’impresa, lasciandosi cadere sulla prima sedia capitatagli a tiro. Non aveva dormito per quasi due giorni e due notti e adesso la stanchezza e il sonno stavano prendendo il sopravvento.
In quello stesso momento si accorse del forte brusio di voci eccitate che proveniva dall’entrata della biblioteca.
Dalle tipiche imprecazioni in lingua greca capì che Ermes il Greco aveva scoperto la sua nuova intrusione notturna, ma non potette fare a meno di trattenere una grossa risata immaginando la comica scenetta che si stava svolgendo lì fuori, in corridoio.
Era giunto il momento di tornarsene nella sua camera da letto per farsi una bella dormita rigeneratrice. Non fece in tempo a concludere questo pensiero che una fortissima folata di vento gelido spalancò violentemente l’enorme finestra della biblioteca, sparpagliando sul pavimento tutti i fogli che si trovavano sul tavolo.
Con prontezza, Amir riuscì a richiuderla e si mise subito a raccogliere tutti quei fogli sparsi sul pavimento, anche per evitare che Ermes potesse accusarlo al re di aver distrutto chissà quale antico manoscritto.
In pochissimo tempo li recuperò quasi tutti, tranne un foglio che proprio non voleva saperne di essere catturato. Si era nascosto nell’angolo più remoto della biblioteca, infilato sotto un battiscopa per quasi tutta la sua lunghezza.
Amir gli si avvicinò sospettoso.
Quindi, provò a tirare verso di sé il piccolo lembo di foglio che era rimasto fuori dal suo strano nascondiglio.
Immediatamente sentì lo scatto di un meccanismo metallico.
Con stupore, vide una parte del battiscopa aprirsi lentamente verso l’esterno e, senza pensarci due volte, infilò la mano destra in quell’angusto spazio. Al tatto delle sue dita gli sembrò di aver trovato un grosso libro rilegato in pelle. Lo afferrò con forza ma lo estrasse delicatamente.
Istintivamente, capì di aver fatto una scoperta sensazionale e il titolo, scritto con caratteri cubitali in oro, non ammetteva equivoci.
Aveva trovato il leggendario “Libro dei ricordi”.
Nel frattempo, Ermes il greco era riuscito a superare l’ostinata opposizione delle due guardie all’entrata ed aveva fatto irruzione all’interno della sala. In quello stesso istante la finestra della biblioteca si riaprì violentemente con un grande rumore di vetri rotti. Amir approfittò della confusione e rapidamente si diresse verso l’uscita e da lì alla sua camera da letto. La prima cosa che fece fu quella di nascondere il libro in un posto sicuro e segreto. Si sentiva stanchissimo e troppo assonnato per iniziare a leggerlo ma promise a sé stesso che, il mattino seguente, avrebbe iniziato a sfogliarlo senza perdere altro tempo prezioso.
Alle prime luci dell’alba il principe era già sveglio. Eccitato si rimise in piedi e tirò fuori, da sotto il materasso, il “Libro dei ricordi”.
Ne accarezzò delicatamente la copertina, realizzata con una pregiata pelle di colore marrone scuro e intarsiata con diverse incisioni. C’erano anche diversi disegni ma riuscì a distinguerne solo alcuni.
Riconobbe l’isola di Astagatt, la montagna dove viveva la strega Luthien e la pericolosa foresta degli inganni, ma non seppe dare una spiegazione al gioiello dalla forma strana che vedeva inciso, per la prima volta, su di un libro.
Sapeva di avere tra le mani il libro più antico del mondo. Era stato scritto dal misterioso mago Sekmet, di cui tutti parlavano ma che solo pochi eletti avevano avuto il privilegio di vederlo nella sua vera essenza. Amir sperava che, un giorno non lontano, anche lui avrebbe fatto parte di quel ristretto gruppo di “illuminati”.
Si fece coraggio ed iniziò a leggere.
La prima pagina del libro esordiva con un terribile avvertimento: “Solo i membri della famiglia reale hanno il diritto di consultare queste pagine. Su tutti gli altri… indegni e usurpatori… cadrà la mia tremenda vendetta”.
Il principe rimase per due giorni chiuso nella sua stanza, insensibile alle richieste del personale di servizio che, al di là della porta chiusa a chiave, lo invitavano a fare colazione, poi a pranzare e, infine, a cenare. Ma Amir aveva dato disposizioni ben precise al capo della sua scorta personale: nessuno poteva entrare nella sua stanza senza un suo preciso ordine.
Grazie al “Libro dei ricordi” scoprì la sua vera origine.
I suoi ascendenti erano arrivati sull’isola di Astagatt centinaia di anni prima, provenienti da una terra ormai perduta.
Quel vecchio mondo non esisteva più.
A causa di un terrificante e misterioso evento naturale, di cui però il libro non dava alcuna spiegazione, la terra si era trasformata in un’enorme palla d’acqua salata. Solo l’isola di Astagatt e poche altre terre emerse erano sopravvissute al cataclisma.
Molti popoli erano scomparsi, ma molti altri si erano salvati approdando con mezzi di fortuna su ogni isola dell’arcipelago. Nonostante avessero conservato la propria antica lingua, la cultura e le tradizioni, era andata perduta tutta la tecnologia precedentemente acquisita dall’umanità.
Grazie all’intervento del mago Sekmet, quell’iniziale babele di popoli diversi era stata trasformata e modellata come si fa con una scultura di cera.
Per prima cosa, stabilì delle precise regole di convivenza e donò a tutti i popoli una lingua universale, in modo che potessero capirsi l’un l’altro senza malintesi.
Ogni isola fu libera di dotarsi del sistema di governo ritenuto più opportuno e conveniente da parte dei loro cittadini. Alcune popolazioni europee mantennero un regime sostanzialmente democratico, con un parlamento e un presidente eletto direttamente dal popolo, come sull’Isola della Torre Bianca. Altre, tra cui le stesse Astagatt e, parzialmente, l’isola di Cora, scelsero un sistema più complesso, realizzando un mix tra monarchia e califfato che tenesse in perfetto equilibrio le varie etnie presenti sulle rispettive isole.
Grazie al mago Sekmet, nonostante un coacervo di razze e culture diverse, dopo oltre mille anni non era scoppiata nemmeno una guerra o una piccola rivoluzione.
Nell’arcipelago tutti vivevano pacificamente.
Per evitare che in futuro potessero sorgere problemi di convivenza tra i diversi popoli, il mago Sekmet bandì per sempre ogni forma di religione monoteista. Favorì, invece, la diffusione del politeismo e la cosiddetta “magia bianca”, ma solo se a praticarla fossero stati sacerdoti o sacerdotesse esperte. Al contrario, veniva punito con la morte, mediante il rogo, chiunque fosse stato scoperto a praticare rituali di “magia nera”.
Nel Libro dei ricordi si parlava anche della strega Luthien, ma la sua storia era completamente diversa da come gli era stata raccontata dai suoi precettori.
La strega, quand’era bambina, aveva abbracciato “lo spirito della luce”. Aveva usato i suoi grandi poteri solo per fare del bene.
Di queste pratiche di magia bianca avevano tratto grande giovamento tutti gli abitanti dell’isola di Cora, dove Luthien aveva vissuto per molti anni, insieme a tutta la sua particolare e numerosa famiglia.
Purtroppo, il libro non spiegava il motivo per cui, improvvisamente, la strega aveva subito un radicale cambiamento e si era trasformata “nell’l’angelo del male”.
Giunto all’ultima pagina Amir lesse la famosa profezia e immaginò di essere lui l’eletto. Nel libro si descriveva fin nei minimi particolari il Diaspro rosso, di cui lui non aveva mia sentito parlare prima. Adesso il mistero più grande da risolvere era trovare questo talismano.
Ma dove cercarlo?
Istintivamente, iniziò a ripetere sempre la stessa frase.
“Una tragedia sfiorata… un talismano. Una tragedia sfiorata… un talismano…”.
All’improvviso ebbe un sussulto, come se fosse riuscito a risolvere quell’intricato e misterioso enigma.
“Ci sono… ci sono…», iniziò ad urlare a voce alta, “come sono stato stupido a non averci pensato prima. La tragedia sfiorata in mare con mio fratello Akhmed… è quello il posto… e lì che si trova il potente talismano… il Diaspro rosso. Io l’ho visto… io l’ho visto!! Domani mattina presto uscirò in mare e cercherò nelle profondità degli abissi… così come recita la profezia”.
Capitolo settimo
IL DIASPRO ROSSO
“Dov’è… dov’è…», si sentiva riecheggiare nella stanza.
Il principe Amir si aggirava tra le sue cose buttando all’aria tutto ciò che gli capitava tra le mani, come se stesse cercando il bene più prezioso del mondo.
“Dov’è il Libro dei ricordi… maledetti… ridatemelo subito o vi farò fucilare… anzi impiccare all’albero più alto dell’isola… e dopo vi fucilo… personalmente…”.
Proprio nel momento in cui pronunciava quelle minacce si materializzò la figura del capo bibliotecario: Ermes il greco.
“Mio principe”, si affrettò a tranquillizzarlo, “il libro è già al sicuro ed in buone mani. Se desidera… mi troverà in biblioteca ad aspettarla. Penso che sia giunto il tempo per una lunga e approfondita chiacchierata da fare insieme”.
Amir si voltò sorpreso e puntò il suo sguardo diritto verso di lui, aggrottò le sopracciglia e irrigidì la mascella, poi lo redarguì violentemente: “Fino a prova contraria sono ancora il principe ereditario di quest’isola… anzi… tra non molto tempo diventerò il re di Astagatt e nessuno… soprattutto un capo bibliotecario come te… può dirmi cosa devo o non devo fare!!”.
“Caro principe”, replicò Ermes, “la responsabilità per la custodia di questo preziosissimo libro mi è stata affidata da suo padre, il re Mohammed, lo stesso giorno in cui presi servizio nella biblioteca reale. Solo il sovrano può autorizzare qualcuno a consultare il testo. Purtroppo Lei ha sottratto il libro con l’inganno e di questo dovrà rendere conto direttamente a suo padre quando ritornerà dall’isola di Cora. Adesso mi scusi ma il dovere mi chiama”.
Amir non potette fare altro che osservarlo, immobile, mentre si allontanava dalla stanza con il libro sotto al braccio.
Fu in quel momento che decise che fosse giunto il momento di attuare il suo piano. Doveva assolutamente trovare il Diaspro rosso e dimostrare a tutti, suo padre compreso, che lui era l’unico e solo eletto indicato nella profezia. Si vestì rapidamente con gli abiti tipici di Astagatt e si avviò verso l’uscita segreta del palazzo reale, quella stessa che utilizzava tutte le volte che desiderava camminare per la citta senza essere riconosciuto dai passanti.
Al porto si fermò al cantiere navale dove procedevano febbrili i lavori di potenziamento della flotta. Qui poté ammirare la costruzione della nuova nave ammiraglia a cui era stato dato il nome di sua madre “Regina Adeela”. Un velo di commozione sembrò scendergli sul viso ma riuscì a farsi forza per non piangere.
Sua madre era partita già da due settimane e la mancanza dei genitori iniziava a farsi sentire.
Girò i tacchi e si avviò verso la bottega del panettiere dov’era sicuro che avrebbe potuto respirare l’odore del pane fresco appena sfornato.
Diego, il fornaio, si divertiva a preparare delle pagnottelle dalle forme più curiose e strane, ma pur sempre buonissime.
Proveniva da una nobile famiglia, di lontane origini italiane, e avrebbe potuto seguire la strada professionale del padre: diventare ambasciatore.
Al contrario, scelse di frequentare l’Accademia di belle arti perché sognava di diventare il pittore più famoso dell’intero arcipelago.
Un giorno, mentre era diretto a scuola, incontrò l’amore della sua vita Maria “La Cinesina”, così soprannominata a causa della forma dei suoi occhi dal taglio tipicamente a mandorla.
Purtroppo il loro amore fu contrastato dal padre di Diego a causa delle umili origini della ragazza. Inoltre, non desiderava affatto imparentarsi con una famiglia di provenienza cinese. Diego non volle sentir ragioni e decise di sposarla contro il volere di tutti. Per questo motivo fu allontanato dalla sua famiglia e diseredato di tutti i suoi averi, tranne per una piccola cifra che, per la legge dell’isola, ogni primogenito aveva il diritto di ereditare al compimento dei diciotto anni.
Con quei soldi Diego Costa ebbe la possibilità di organizzare un modesto ma divertente matrimonio per la sua Maria e di prendere in affitto un piccolo forno a legna, vicino al porto, dove iniziò a lavorare come fornaio per mantenere la sua nuova famiglia. La coppia ebbe fortuna. Gli affari andarono molto bene tanto che Diego, in poco tempo, diventò il panettiere ufficiale di palazzo reale.
Le sue pagnottelle non avevano eguali sull’isola ed erano famose, soprattutto, le sue ciambelle condite alla “Vergara”, la rara spezia. Ma, come purtroppo accade nella vita, l’infame destino era in agguato.
La moglie Maria, dopo aver partorito senza alcun problema la prima figlia Jasmine, morì dando alla luce Fatima, la figlia più piccola, a causa di complicazioni sorte dopo il parto.
Da quel giorno, negli occhi azzurro cielo di Diego, scese un perenne velo di tristezza.
Amir, fin da bambino, aveva frequentato la sua panetteria e qui aveva conosciuto Fatima. Tra i due nacque subito una forte simpatia tanto che, ogni volta che poteva, si recava in quella panetteria solo con la speranza di poterla rivedere. In quelle occasioni doveva essere sempre accompagnato dal capo della sua scorta personale, il fedele “Colosso”.
Quando non gli veniva concesso dal re il permesso di uscire, allora s’intrufolava nelle cucine reali nella speranza che, con l’arrivo di Diego e il suo pane, ci fosse anche la bella Fatima. Il principe, in quelle circostanze, si accontentava di lanciare solo dei brevi ma intensi sguardi che la silenziosa ragazzina ricambiava, con un sorriso misto di timidezza e vergogna.
Tutti a palazzo sapevano della passione di Amir per la figlia del panettiere, compresi i suoi reali genitori. Un giorno Re Mohammed volle parlare con suo figlio per metterlo in guardia dai facili innamoramenti.
In quella occasione gli rammentò il suo rango e gli disse che molto presto gli sarebbe succeduto sul trono di Astagatt. Doveva rinunciare a Fatima, immediatamente, perché quello era un amore impossibile, mentre doveva occuparsi solo della bellissima Sofia, sua promessa sposa.
Amir rimase molto impressionato dal discorso di suo padre tanto che, per alcuni mesi, si tenne a debita distanza dalla panetteria e fece di tutto per dimenticarla. Si concentrò nello studio e nello sport, più di quanto non avesse mai fatto in tutta la sua vita.
Ma tutto fu inutile.
Il suo ultimo pensiero, prima di addormentarsi, era sempre per lei, la bella figlia del panettiere. La sua immagine gli frullava nella testa come quei ritratti di fanciulle dal volto angelico che, fin da piccolo, aveva visto appesi nella sala del trono.
Amir allontanò da sé quei ricordi e si diresse velocemente verso la casa di Diego il fornaio. Nel suo elaborato piano anche Fatima avrebbe avuto un ruolo importante. Doveva solo trovare il modo per incontrarla da sola e convincerla a seguirlo senza fare troppe domande. Non era solo l’aspetto fisico di quella ragazza ad attirarlo come una calamita, ma anche la sua caparbietà e tenacia nel fare le cose. Con il suo aiuto, probabilmente, sarebbe riuscito nell’impresa di ritrovare il Diaspro rosso.
Giunto al muro di cinta che dava all’interno della casa del fornaio, si assicurò che non ci fosse anima viva nei paraggi e si arrampicò velocemente, con le movenze di un gatto. La bella Fatima era in giardino intenta a preparare la tavola per la consueta cena.
Per non spaventarla si avvicinò lentamente e, quando fu a pochi metri, si tolse subito il cappello per poter essere facilmente riconoscibile.
Solo a quel punto s’inginocchiò ai suoi piedi ed esordì dicendo: “Mia principessa… è tutta la vita che aspetto questo incontro. Come ti avevo promesso proprio qui… tantissimi anni fa… un giorno sarei ritornato e ti avrei chiesto di sposarmi. Quel momento è finalmente arrivato… quel momento è adesso. Ti chiedo solo di avere fiducia in me. Per favore seguimi senza fare domande. Ho bisogno del tuo aiuto per realizzare un’impresa tremendamente difficile. Ti assicuro che torneremo in tempo per la cena e nessuno si accorgerà di questa tua breve assenza”.
La bella Fatima, ancora stordita per la sorpresa, rimase con la bocca semi aperta e con gli occhi sgranati. Ma si riprese velocemente tanto da avvicinarsi delicatamente al principe per prendergli la mano ed aiutarlo a rialzarsi.
Con la sua proverbiale energia gli disse: “Allora… cosa aspettiamo? Andiamo…? L’avventura ci aspetta!!”.
Entrambi scoppiarono a ridere.
Era come se il tempo non fosse mai passato.
Si sentivano come parte di un tutto, ognuno fedele all’altro, nonostante la lontananza e la difficoltà di non potersi vedere tutte le volte che lo desideravano.
Il principe aiutò Fatima a scavalcare il muro di cinta e insieme si diressero verso il porto. Percorsero delle stradine secondarie, quelle meno frequentate, in modo da poter raggiungere il loro primo obiettivo senza essere riconosciuti.
Giunti a destinazione Amir si avvicinò ad una piccola imbarcazione a vela dal nome inconfondibile “Principessa Fatima”.
I loro sguardi si incrociarono ancora e una strana sensazione di dejà vu’ corse lungo la schiena del principe. In realtà non ebbe il tempo di gustarsi quell’intensa emozione che erano già a bordo.
La notte era già scesa sulla città e bisognava fare in fretta.
Amir iniziò subito a remare cercando di raggiungere velocemente l’uscita del porto per poter issare la vela. Intanto, una leggera brezza iniziò a soffiare nella giusta direzione e questo fu di grande aiuto per il principe tanto che, in pochi minuti, la piccola barca raggiunse il luogo dov’era affondato il fratello Akhmed.
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