
Breve biografia degli Autori
Gianvincenzo Cantàfora vive a Milano. Dopo avere frequentato il Politecnico e l’Università di Urbino, ha lavorato per molti anni come consulente nel settore Aeronautico e della Difesa e ha scritto di questi temi sulle più importanti riviste specialistiche. Appassionato di viaggi e di motori collabora attivamente con la rivista “Auto d’Epoca” pubblicando articoli tecnici, storico-motoristici e resoconti di viaggio.
Maria Cristina Cantàfora vive a Milano. Dopo gli studi classici collabora come redattrice editoriale con importanti case editrici. Successivamente ha lavorato presso la casa⠀editrice Nuovi Autori presentando i testi di scrittori emergenti come relatrice. Ha collaborato con il Prof. Vittorio Sermonti per una nuova edizione della Divina Commedia per la casa editrice Giunti. Inoltre, ha creato la collana Biomondo che si occupa della salvaguardia dell’ambiente e della sostenibilità.
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In quest’opera i Fratelli narratori Maria Cristina e Gianvincenzo Cantàfora presentano personaggi femminili colti in momenti particolarmente drammatici.
Lo sfondo tragico e terribile è quello della Seconda guerra mondiale negli anni dal 1941—1945. I racconti si basano su fatti dolorosi e tragici realmente accaduti, nulla è lasciato al caso o alla fantasia. Le protagoniste sono donne comuni, che nel frangente non hanno esitato a mettere a repentaglio se stesse e la propria vita. Infine, l’epilogo è un appello alla pace, con la speranza di un futuro migliore.
Il coraggio delle donne in Guerra
Prefazione dell’interprete
Circa 20 anni fa, il 9 maggio, quando era ancora viva mia nonna, veterana della Seconda guerra mondiale Ofelia Bagdasarovna Barsegyan (Kolomiets), andai a visitarla viaggiando da Mosca a Krasnodar. Mi ricordo che ci trovammo in cucina e lei mi preparò i varenichi con le ciliege (ravioli russi) e io stetti al tavolo a bere il mio caffè di fronte a mia nonna e guardai la Parata della Vittoria alla TV. “Che strano” — pensai — “La parata si svolge a Mosca e io invece sono qua a casa di mia nonna a guardarla alla televisione… E allora!? Cosa mi importa della parata se il veterano più importante è qui vicino a me? Non ho bisogno degli altri!”
A quel tempo i miei pensieri erano patetici e allegri e ora, dopo tanti anni, sono tristi. Mi piacerebbe guardare di nuovo questa parata con lei… anche se ha sempre guardato in silenzio la trasmissione e non ha mai commentato nulla. Non ho mai capito perché fsse così severa e silenziosa. Perché tutto questo rigore e senso di tragedia, ora si può e si deve vivere in modo più leggero e più divertente… Ma come fai a praticarlo se hai visto e vissuto i tragici momenti che mi ha raccontato?
Mi ha detto che all’età di dieci anni ha dovuto lavare le bende insanguinate in un ospedale militare. Equando i soldati dai loro letti le gridavano allegramente: Tofik! Balla! lei girava e ballava e per questo le veniva data una caramella. La portava a casa alle sue sorelle più giovani: ognuna di loro, a turno la succhiava un po’ e la passava alle altre. Difficoltà inimmaginabili ai nostri giorni!
Una parata è senz’altro una cosa pazzesca! Ti ispira orgoglio per tutto il potere mostrato sulla Piazza Rossa! Ma il valore e l’agire dei prodi può essere di diverso tipo. Non tutti di loro si possono presentare in TV addirittura sulla Piazza Rossa! Per esempio, la madre di mia nonna, Vart Mkrtychevna Barsegyan, mettendole un sacco pesante sulla schiena le disse: “Ecco un sacco di carbone per te, portalo a casa! Ma guarda, non toglierlo dalla schiena e non fermarti! Se ti fermi a riposare, non raccoglierai più la borsa!” e lei una bambina, camminava, si urinava addosso per la stanchezza e camminava per molti chilometri senza fermarsi, prima di arrivare a casa.
La Guerra non ha il volto di una donna, si dice in Russia. Ma allora quale, se non quello di un viso femminile? Gli stereotipi di genere vanno bene quando non ci sono i problemi ed è ora di cena. Ma quando tu sei una ragazza con i capelli ricci, carichi le bombe da 150 kg sul tuo biplano, affondi un coltello nel fianco dello stupratore per proteggere i tuoi figli, spari al nemico o porti un gran peso, la borsa lungo tua la strada, è come se non fossi più la debole donna rifugiata in cucina. La guerra invece ha un volto molto femminile, un volto molto triste, pieno di lacrime e sangue. La vittoria in questo caso ha un volto maschile. Gli uomini forti sono stati condotti sulla Piazza Rossa e queste donne con borse sulla schiena sembravano vergognose di mostrarsi. Certo, non sono loro che hanno vinto la guerra. Ma come ha scritto l’autore di questo libro neanche le incredibili Streghe della notte sono state inviate a sfilare sulla Piazza Rossa.
Coloro che combattevano sono sicuramente eroi di una battaglia sacra. Ma coloro che hanno dovuto masticare gomma dalla fame, marcire nei campi di concentramento, morire sotto tortura, vedere con i propri occhi le atrocità nei confronti dei loro vicini, non essendo in grado di voltare loro le spalle o dimenticarli tutti. Per mostrare il coraggio di tutti loro non è sufficiente nessuna piazza.
Lasciamo quindi che questa opera letteraria sia un monumento al loro onore e valore, che probabilmente non avremmo mai appreso se non fosse stato per la nobiltà degli individui che hanno ritenuto degno di mostrare le loro imprese attraverso questa serie di racconti.
Quando ho saputo dell’intenzione del mio caro ed egregio amico Gianvincenzo Cantàfora di scrivere una storia dedicata alle nostre famose Streghe della notte, che terrorizzavano le truppe aeree della Wehrmacht, volando sui loro biplani giocattolo — Polikarpov, soprannominati “Pannocchia”, ho risposto con gratitudine alla sua richiesta di tradurre questo monumento di grande valore in russo. Sebbene ci siano molte storie sulla loro impresa, sono pochi coloro i quali, non essendo cittadini del nostro paese, avrebbero trovato il tempo e il desiderio di prestare attenzione alla loro impresa. E ora nel periodo nel quale, all’estero, è imperante la cultura della cancellazione di tutto quanto sia russo, questo atto ha un significato ancora più prezioso per me e più notevole per il mio paese e mi inchino profondamente per il suo approccio e Coraggio!
La saggezza è sempre un segno di una natura indipendente. È facile essere orgogliosi di ciò che appartiene alla storia della tua nazione, è un dovere civico di tutti. Ma quando qualcuno al di fuori del tuo paese lo fa, parla della sua nobile educazione e della sua anima profonda! Una persona del genere diventa, per così dire, parte della stessa prodezza, portando con orgoglio una torcia accesa davanti alla storia.
Per quanto tragici siano gli eventi descritti nel libro, mi hanno dato un’idea: il male non è mai assoluto. Sempre nel profondo dell’abisso infernale c’è almeno una piccola debole scintilla di verità che non svanirà mai. Ognuna di queste scintille inestinguibili è la lucentezza non sbiadita degli occhi delle donne su entrambi i versanti della guerra.
Lavorando sulla storia delle eroine sovietiche in tempo di guerra, siamo giunti alla conclusione che valeva la pena bilanciarlo con storie di imprese femminili e dall’altra parte del conflitto. Dopotutto, non può essere che assolutamente tutti siano infettati dal fanatismo di un falso percorso ideologico, come nei paesi fascisti. E c’erano persone che non erano d’accordo con la dottrina della falsa dottrina della superiorità di alcune nazioni rispetto ad altre, costrette, tuttavia, a sopravvivere nelle immediate vicinanze della Chimera velenosa e respirare con essa l’unica aria avvelenata che produce. Chissà chi è stato nella difficolta più grave in quel momento? Dopotutto, i cittadini di quel paese non avevano nemmeno la possibilità di un’altra scelta! E la patria, come sappiamo, non viene scelta. Scegli i tuoi ideali e le regole della vita. Cosa hanno che fatto le eroine di questo libro che vivevano su entrambi i versanti della guerra.
Il padre di Gianvincenzo, capitano di artiglieria Duilio Cantafora prestò servizio nell’esercito italiano, ma anche allora capì chiaramente l’inutilità e l’errore della politica governativa di quei tempi. Nei suoi diari, che racconteremo sicuramente nei prossimi libri, ha condiviso sinceramente le sue opinioni e i suoi rimpianti su ciò che stava accadendo. I partigiani, il movimento di Resistenza, le persone anonime e soprattutto le donne ridotte in condizioni di mera sopravvivenza hanno cercato di contrastare questo caos.
Per approfondire il motivo per cui le donne italiane sono morte, la sorella di Gianvi, Maria Cristina Cantafora, famosa autrice italiana, si è unita al lavoro. Maria Cristina e Gianvincenzo hanno raccontato nelle pagine di questo libro che le donne italiane che erano diventate vittime inconsapevoli del fascismo e poi del nazismo e anche coloro che non riconoscevano i valori brutali e bestiali indotti a loro, non erano d’accordo e non cedevano a false idee, ma furono costretti anche tacitamente a sopportare tutte le sofferenze inferte dell’Idra del Terzo Reich e i suoi ministri dalla testa di serpente.
Coloro che oggi si lamentano del loro destino dovrebbero essere i primi a leggere queste storie e coloro che pensano di non essere in grado di cambiare la loro situazione e sono costretti a sopportare la dura realtà dovrebbero conoscere ciò di cui le persone sono capaci nel momento più terribile dell’esistenza del mondo. Le possibilità dell’uomo sono infinite, sebbene vane, finché non ci aiuta Dio.
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Parte 1.
Il coraggio indomabile delle Streghe della Notte
Dal buio della notte della Seconda guerra mondiale emerse un gruppo di giovani donne coraggiose, che divennero la leggenda del fronte orientale: le “Streghe della Notte”. Studentesse, operaie, contadine divennero aviatrici intrepide, sfidarono le convenzioni e la paura per combattere il nemico nazista, formando un Reparto tutto al femminile, un’impresa unica nella storia dell’aviazione militare.
Con il progredire della guerra, il confronto in armi tra l’Unione Sovietica e il potente esercito tedesco sembrava risolversi a favore di quest’ultimo che aveva raggiunto il Volga, sembrava essere pronto a conquistare anche Mosca e aveva lasciato dietro di sé oltre due milioni di morti. Per l’Unione Sovietica, ogni giorno di più, sembrava approssimarsi il punto di non ritorno e il suo tracollo finale. Per contrastare tutto questo e scongiurare l’immane pericolo che la sovrastava, la Patria aveva bisogno del coraggio, dell’indomita volontà e della determinazione di tutti, anche quella delle giovani donne che avevano risposto all’appello del maggiore Marina Raskova, la famosissima pilota sovietica che nel 1942 aveva ottenuto da Stalin l’incarico di formare un reggimento di bombardamento notturno, formato da sole donne. Raskova non solo scelse piloti con abilità eccezionali, ma decise anche di reclutare esclusivamente donne giovani e audaci per servire nel nuovo e rivoluzionario reparto. Selezionare le donne per questo compito era visto come un atto rivoluzionario e provocatorio in un’epoca nella quale le donne rivestivano ruoli limitati nell’ambito delle forze armate.
Le valorose aviatrici che facevano parte del 588° Reggimento da bombardamento notturno, soprannominate dai nazisti “Nachthexen”, utilizzavano i biplani Polikarpov Po-2. Questi velivoli in legno e tela non erano né veloci né particolarmente potenti, ma avevano il vantaggio di essere furtivi e difficili da individuare nell’oscurità. Le Nachthexen effettuavano rischiose missioni notturne di bombardamento e ricognizione sui territori occupati dai nazisti.
Senza l’uso di tecnologie sofisticate o di navigazione strumentale, esse si affidavano esclusivamente a bussole e mappe per pilotare i loro velivoli, il che richiedeva abilità e coraggio eccezionali. In queste condizioni pericolose, le aviatrici sovietiche dovevano volare a bassa quota, lentamente, prendendo di mira le posizioni nemiche per seminare il caos e la paura tra le forze tedesche, comparendo all’improvviso, precedute dal solo ronzio dei loro aeroplani in planata.
Il coraggio e la tenacia di queste giovanissime pilota non passarono inosservati al nemico. I nazisti arrivarono a temere e odiare queste donne impavide che, senza paura, sfidavano la supremazia maschile in guerra. I piloti tedeschi così presero a chiamarle “Nachthexen” (Streghe della Notte) anche per silenzioso fruscio dei loro velivoli e della loro inspiegabile capacità di apparire e scomparire nell’oscurità. Del resto, chi mai avrebbe potuto insidiare la virile potenza delle armate tedesche, se non delle Streghe? Nonostante gli attacchi tedeschi e i tentativi di abbattere i loro aerei, le Nachthexen dimostrarono un’abilità e una determinazione senza pari. Parteciparono a più di 23.000 missioni di combattimento e sganciarono migliaia di tonnellate di bombe sulle forze nemiche, infliggendo danni significativi alle linee del fronte nazista.
Il coraggio e lo spirito indomito delle Nachthexen sono rimasti impressi nella storia della Seconda guerra mondiale. Il loro coraggioso servizio e la loro dedizione alla causa della libertà e della resistenza contro la tirannia nazista hanno lasciato un’eredità duratura nell’aviazione militare e nella lotta per l’uguaglianza di genere. Sebbene la guerra sia finita da tempo, il ricordo delle Streghe della Notte rimane un simbolo del coraggio delle donne e della loro capacità di abbattere le barriere e sfidare le aspettative sociali. Il loro esempio continua a ispirare le future generazioni in tutto il mondo, dimostrando che con la determinazione e l’abilità esse possono superare qualsiasi ostacolo e scrivere la storia, anche nei settori più difficili come l’aviazione militare.
Oggi, delle eroiche aviatrici non resta in vita più nessuna. Ma la loro memoria va onorata e diffusa, poiché molto pochi in Europa e nel resto del mondo conoscono le loro gesta e con il mio racconto intendo proprio fare questo. Il mio intento è che, oltre a narrare una gloriosa pagina di storia, che permetta a tutti noi di riflettere su due aspetti della nostra realtà storica: i diritti delle donne e la pace tra i popoli.
Le streghe della notte
Fratellanza — Sorellanza
Il 588° Reggimento da bombardamento notturno
Гордитесь тем, что вы женщины! (Siate orgogliose di essere donne!), il primo dei dodici comandamenti redatti dal Maggiore Marina Raskova, Comandante del 122° Gruppo Aereo, campeggiava sull’entrata dell’aerodromo della scuola di aviazione di Engels e accoglieva tutte le allieve pilote e navigatrici che avevano risposto al suo invito per difendere la Patria invasa dal dilagante e opprimente nemico.
Stalin in persona aveva ceduto alle pressanti richieste del Maggiore Raskova, la “Amelia Earhart” sovietica e aveva consentito che il 588° Reggimento da Bombardamento leggero notturno fosse costituito da sole giovani donne. Così, fin dal 1941 ne erano accorse a Engels oltre duemila, provenienti da ogni parte dell’Unione Sovietica ed esse, studentesse, operaie, allieve delle scuole di aviazione civile che fossero, erano pronte a entrare nelle unità dell’aeronautica tutte al femminile, che avrebbero volato in missioni di guerra e sganciato bombe, offrendo le loro giovani vite all’Unione Sovietica, la prima nazione che aveva deciso di impegnare anche le donne nella feroce guerra che stava devastando il paese.
Le ragazze fragili contro il Terzo Reich
In soli tre mesi di addestramento, 15—17 ore di duro lavoro ogni giorno, il Maggiore Raskova ne aveva selezionate 1200, poi suddivise in tre gruppi di volo: il 586° Reggimento caccia, il 587° per il bombardamento in picchiata, formati da personale misto e il 588° gruppo per il bombardamento leggero notturno, formato da 260 giovani donne, suddivise tra pilote, navigatrici e personale di terra, al comando del Maggiore Yevdokia Bershanskaya.
Insomma, una unità, il 588°, che incarnava il comandamento della Raskova e che possedeva un cuore che batteva all’unisono per via della sorellanza solidale che univa tutte loro.
Non altrimenti avrebbero potuto svolgere il loro durissimo lavoro e divenire l’unità di Aviazione femminile più decorata dell’Unione Sovietica. Un primato invidiabile che consentì loro di perdere in missione solo 28 aerei, con 32 vittime, guadagnando 23 medaglie dell’ordine di Eroe dell’Unione Sovietica, delle quali cinque alla memoria.
Ma, se partiamo dall’inizio della loro storia, questa era forse l’unità militare più “fragile” della Seconda Guerra Mondiale, che doveva battersi contro l’esercito più duro, meglio addestrato, meglio equipaggiato e il più capace di tutti i tempi nell’arte
della guerra. Insomma, un fragile e delicato soprammobile di vetro finissimo, tra rudi e pacchiani vasi di ferro. Rapportandoci poi alla ferrea logica maschilista del tempo, il delicatissimo oggetto rappresentato dal 588° si sarebbe dovuto frantumare al primo impatto con i teutonici guerrieri del Reich, ma non fu proprio così.
Le bombe in cambio di paracadute
Le “Streghe della Notte”, infatti, forti della loro solidale “sorellanza” seppero trovare il vigore combattivo necessario, trasformando la loro “debolezza” in forza. Al comando di Yevdokia Bershanskaya, divennero astute come serpenti e lottarono come tigri, insomma, divennero la leggenda che oggi conosciamo.
Volare, navigare e mantenere in perfetta efficienza gli aerei “Pannocchia” ovvero i biplani Polikarpov Po.2, che costituivano la linea di volo del reggimento, rappresentava un duro e impegnativo lavoro per tutte loro e che manteneva viva l’amicizia e rinsaldava i vincoli di vera fratellanza forse, ben oltre la semplice sorellanza di genere. Per le giovani pilote del 588°, i Polikarpov erano indubbiamente più facili da pilotare rispetto ai potenti caccia del tempo.
Erano costruiti in legno e tela, simili a quelli usati nella Prima guerra mondiale: a due posti, con la cabina scoperta e, in tempo di pace, venivano usati di solito solo nella buona stagione. Raggiungevano una velocità di appena 150 chilometri orari, contro i 500—600 km degli aerei tedeschi. Mancavano tutte le apparecchiature moderne come radio, radar, navigazione notturna, puntamento e armi: insomma, le fragilissime “Streghe” dovevano arrangiarsi con bussole, torce, cartine, matite, righelli e compassi e due pistole.
L’aereo non poteva portare molto peso e non era predisposto al trasporto di bombe, quindi, per caricare due ordigni da 50 chilogrammi l’uno, gli equipaggi dovevano rinunciare ai paracadute. Per questo, tutte loro solidali e affratellate, volavano sugli aerei “Pannocchia”, mostrando un coraggio da vere leonesse, pur mantenendo quei tratti di femminilità che contraddistinguevano la loro giovinezza.
L’onorificenza per ogni strega abbatuta
Di giorno, ricamavano, decoravano i loro aerei con fiori e usavano le matite di cui erano dotate per la navigazione anche come eyeliner, di notte, invece, ritornavano a essere le eroiche combattenti che seminavano il terrore nei cuori del nemico, con i loro lenti aeroplani di legno e tela, con l’impeto, la determinazione e la leggerezza d’animo che solo la giovane età poteva loro offrire.
Volavano con la copertura del buio, sfidando i colpi del nemico e il congelamento in aria, mentre di giorno combattevano lo scetticismo e le molestie sessuali a terra.
Erano temute e odiate dal nemico, al punto che ogni aviatore tedesco che avesse abbattuto un aereo “Pannocchia” con le sue occupanti, sarebbe stato automaticamente insignito della prestigiosa Croce di Ferro.
Ma le ragazze del 588° non temevano niente, perché quando il Commissario Politico Nina Nikulina le aveva avvisate: “Attente Compagne, i tedeschi hanno messo una taglia sui vostri aeroplani”, avevano scrollato le spalle, sorridendo, giurandosi poi segretamente reciproca fedeltà, solidarietà e fratellanza, a terra e in volo, scambiandosi fiori e ricami, di giorno e reciproca copertura e scorta, in missione, di notte.
La magia nel cielo
Così, volavano in gruppi di tre aerei a volo radente, con i motori al minimo per non farsi sentire fino all’ultimo momento. I primi due, non armati, facevano da esca per far accendere i riflettori e distogliere i tedeschi, ma si allontanavano subito riprendendo quota, mentre il terzo aereo sganciava le due bombe sull’obiettivo. Oppure, sempre in gruppi di tre, si avvicinavano a volo radente e motori al minimo, si alzavano in quota all’ultimo momento, scendevano in picchiata, sganciavano le bombe, riprendendo quota con i motori al massimo. O ancora, si avvicinavano in quota per poi scendere in picchiata con i motori al minimo, bombardare e risalire.
Per fare tutto questo, occorrevano grande coraggio e determinazione ma, se non ci fosse stato tra di loro il fil rouge, della sorellanza — fratellanza solidale, nessuna tra di loro, neanche le più spericolate, avrebbe potuto fare con naturalezza e semplicità, quello che loro facevano, quotidianamente, in missione. Il motore Shevetsov a cinque cilindri radiali, che faceva volare i loro aerei “Pannocchia”, produceva un fruscio particolare e, quando il nemico, i tedeschi, si rese conto che erano solo donne a pilotarli, le soprannominarono “Nachthexen”, “Streghe della notte” a cavallo delle scope volanti.
Temutissime dal nemico e, “sorelle nella notte”, proprio come nei “sabba” di fattucchiere d’altri tempi, seminavano il terrore tra i nemici, tanto che, in un rapporto del 1942, il capitano tedesco Johannes Steinhoff scrisse: “I piloti sovietici che ci danno più problemi sono donne. Donne che non temono nulla e vengono di notte a tormentarci con i loro obsoleti biplani e non ci fanno chiudere occhio per molte notti”.
1100 giorni in volo
Un ulteriore elemento che conferma la fratellanza esistente nel reparto e rende irripetibile la sua storia è rappresentato dal fatto che il Maggiore Evdokiya Bershanskaya fu il solo e unico comandante del 588° Bombardieri Notturni, dalla fondazione del reparto al suo scioglimento.
Evdokiya era un comandante naturale e amatissima dalle sue sottoposte, tanto che la sua “Strega” Natalya Meklin, a capo di una squadriglia di sei velivoli, la descriveva così: “Era un comandante severo, ma giusto; sapeva anche essere dolce nei momenti delicati che passavamo in quei giorni difficili. Aveva un autocontrollo perfetto, uno sguardo penetrante: ti bastava una sua occhiata per sentirti in colpa se avevi agito male o sentirti contenta se avevi fatto cose buone”.
Certamente una delle componenti che animavano le ragazze del 588° Reggimento era rappresentata dalla forte motivazione nella lotta contro l’invasore, ma è altrettanto vero che la sorellanza e la profonda solidarietà, che permeava tutto il reparto giocarono un ruolo fondamentale nel conseguimento del risultato finale e nella riduzione delle perdite in battaglia. Un grandissimo risultato, perché nelle loro missioni le “Streghe” superarono di gran lunga tutti i loro colleghi maschi, su tutti i fronti, perché se gli equipaggi del “sesso forte” volarono, completando 25—50 missioni a testa, le giovani pilote del 588° reggimento, volarono ininterrottamente per circa 1100 giorni, completando almeno 800 missioni a testa, un risultato impossibile da conseguire in condizioni diverse dalla assoluta sorellanza e dalla solidarietà di gruppo.
Per queste giovani pilote, la vita è sicuramente più comoda l’estate, perché con le notti corte si possono compiere al massimo dalle cinque alle sette sortite, ma diventa molto più dura durante le lunghe notti invernali, quando le missioni possono moltiplicarsi fino a quindici, tormente di neve permettendo.
Le preghiere di Santo Illya
Ne sanno qualcosa le “Streghe” Katya Ryabova e Nadya Popova, che in una notte hanno compiuto 18 raid sopra le linee tedesche. Intabarratissime nelle loro combinate di volo maschili, riadattate da abili mani sulle loro esili figure, hanno volato senza tregua, in un continuo andirivieni e col cuore che batteva all’impazzata.
Senza radio di bordo e interfono, Katya e Nadya si intendono con un muto linguaggio codificato da colpi sulla spalla o strette di mano, in funzione di chi deve “parlare”, il navigatore o il pilota. E, quella fatidica notte, con il termometro che segnava -41°C, dopo ogni rifornimento di bombe e carburante, si sono accontentate del tè caldo che porgeva loro Irina, senza uscire dalla carlinga per risparmiare tempo, lasciando che il loro “angelo custode” continuasse a recitare per loro, la preghiera al Santo Profeta Elia, patrono degli aviatori di tutte le Russie, sovietica compresa, rispondendo: “Prega per noi”, alla invocazione di Irina che diceva: “Sant’Elia che sali nel turbine verso il cielo”.
Il sogno nel cielo
Nella neve, nessuna di loro correva alcun rischio per queste innocenti preghiere, perché il severo Commissario Politico Nina Nikulina dormiva al calduccio nella sua baracca e la brava Irina, ortodossa convinta, non le avrebbe mai tradite.
Diciotto missioni in quella notte erano troppe anche per loro, per quanto fossero determinate e coraggiose, così quando nel profondo buio del piccolo aeroporto, la siberiana Olga aveva dato il cambio a Irina e il Santo Profeta Elia… non le accompagnava più, avevano deciso di dormire in volo, rannicchiate nella carlinga, una all’andata e l’altra al ritorno. Finalmente l’alba e il lattiginoso biancore che si riverbera sulla neve di… (forse non lo sapremo mai), perché Nina Nikulina, il Commissario Politico, aveva ordinato loro: “Di non rivelare mai la zona di operazioni neanche se fossero state in punto di morte”… ricorda a Katya che è tempo di virare per tornare alla base.
Lo Shevetsov tossisce e sembra sputacchiare tutto il suo olio attraverso i cilindri assediati dal freddo, ma una provvidenziale carezza sul tascone sinistro del giaccone di volo risveglia il Santo Profeta Elia che dorme al caldo tra la pelle e il reggiseno della pilota, tutti i rumori si placano.
Un regalo prezioso
Dando nuovamente gas, Katya pensa al lavoro che dovranno fare Irina e Olga, per rimediare al guasto e, mentre pronuncia un liberatorio: “Prega per Noi”, la striscia nera di terra gettata sul campo nevoso, si materializza sotto il carrello e, dopo una virata sopra le baracche il Po 09, prende terra. Nadya dorme ancora, rannicchiata nella carlinga.
Una breve frenata e giungono a destinazione, Katya riemerge dall’abitacolo, la bionda Irina e la taciturna Olga prendono in consegna il velivolo e lo spingono verso l’officina. Sulla porta della baracca-mensa le attende Nina Nikulina, che sta fumando la prima delle innumerevoli “Papiroska” della giornata e le apostrofa così: “Brave compagne, scriverò al comando di reggimento per farvi avere un encomio, le vostre diciotto missioni contribuiranno a rendere la vittoria più vicina… ora mangiate e poi a rapporto, oggi avrete razione doppia di zuppa d’avena e kasha preparate dalle compagne cuoche e anche due bottigliette di vodka “Stalin”, onore a lui, per combattere il freddo in quota”. Poi le lasciò consumare la colazione, ritornando alla sua baracca. Più tardi si uniscono a loro anche Irina e Olga e ognuna ha in mano un piccolo involto, il regalo per le compagne. Quest’ultima srotola sul tavolo una serie di pezzi di pelle renna, ancora con tutti i peli e racconta: “Con questa non riesco a scaldarmi neanche un piede, ma a voi sarà utilissima per pulire gli strumenti e parabrezza del velivolo, il suo grasso residuo non farà ghiacciare più niente…”, quindi si siede e comincia a mangiare.
Mentre Irina mostra orgogliosa a entrambe un nuovo carburatore, avvolto in uno straccio: “Compagne, il vostro velivolo ha finito di tossire, lo cambierò quest’oggi mentre dormite e stasera potrete ricominciare a volare”. Compaiono sul tavolo quattro bicchierini, Katya stappa il suo quartino di vodka, la serve e al grido di: “победа- vittoria”. Irina e Olga tornano in officina e Katya e Nadya raggiungono il dormitorio per riposare un poco ed essere pronte per la prossima missione notturna.
La guerra in cambio della matematica
Anche la storia di Vera Belik e di Tatyana Makarova, due “Streghe” insignite del titolo di “Eroe dell’Unione Sovietica” ci parla e ci dimostra in concreto come fosse vissuto il sentimento della fratellanza-sorellanza, tra di loro.
Vera Belik, futuro Tenente Navigatore del 588°, nacque in Ucraina a Ohrimovka, da una famiglia di operai e visse buona parte della sua giovinezza a Kerch, in Crimea, dove conseguì il diploma in pedagogia, in seguito si iscrisse all’università a Mosca. Lì studiò matematica, prima che la dichiarazione di guerra della Germania sconvolgesse i suoi piani. La rapida avanzata del nemico, ormai alle porte di Mosca nell’ottobre del 1941, la spinse a unirsi alle sue compagne di università, spedite in massa a Volokolamskaya, in periferia, a scavare trincee anticarro.
Pala e piccone non sono la migliore medicina per le loro delicate mani di studentesse ventenni, ma loro non mollano e alla fine di ogni giornata possono annunciare, sorridendo, al Commissario Politico: “Compagno Commissario, oggi abbiamo scavato 1,80x150 metri”, che le saluta e le ringrazia, alzando il pugno sinistro, sino a quando non sono sfilate tutte loro.
A cena, zuppa di cavoli e una fetta di pane nero poi, tutte a letto, pronte a riprendere il lavoro l’indomani mattina mentre l’artiglieria nemica batte incessantemente i capisaldi dell’Armata Rossa, situati più a Sud. Certo, la patria si difende anche con le mani bendate e insanguinate, ma Vera è convinta che lei la possa difendere meglio con la matematica, così entra nell’esercito e si inserisce nell’unità di aviazione femminile, fondata dal Maggiore Raskova, accedendo ai corsi di addestramento alla navigazione aerea, presso la scuola di aviazione militare di Engels.
Sei mesi di duro corso intensivo e, nel mese di maggio 1942, entra ufficialmente nel 588° Reggimento da bombardamento notturno, che è pronto a schierarsi sul fronte sud, lungo il fiume Mius, nei sobborghi di Stavropol. Il Maggiore Bershanskaya le assegna come pilota il Tenente Tatiana Makarova e, da quel momento, costituiranno una coppia fissa, un sodalizio che durerà nel tempo, sino al momento del loro abbattimento. Nel dicembre del 1942, il reggimento si ingrandisce ed entrambe sono promosse. Si forma il secondo squadrone e Belik ne diviene il capo-navigatore, mentre la Makarova, ne diviene il comandante. Il nuovo squadrone condotto dalla Makarova vola incessantemente, durante tutto l’inverno, la primavera e una parte dell’estate del 1943.
Con la morte delle amiche davanti agli occhi
nella battaglia sfortunata
La notte tra il 31 luglio e il primo agosto, avviene la catastrofe: lo squadrone perde quattro aerei ad opera della contraerea e della caccia nemica e quattro falò si accendono nella steppa, sotto gli occhi attoniti e sgomenti del suo comandante e del capo-navigatore che sorvolano il campo di battaglia, senza potere fare nulla per salvare le loro compagne.
Piangendo e imprecando contro “il maledetto nemico”, gridano tutto il loro dolore alla steppa, illuminata dalla prima luna di agosto. Tornate alla base, senza ulteriori indugi, fanno il loro desolato rapporto al Comandante del reggimento: “Compagna Comandante, questa notte abbiamo perso otto valorose Compagne, di certo non siamo responsabili della loro morte ma, viaggiando in scia e senza armi di offesa o difesa, dopo avere sganciato le nostre bombe, non siamo riuscite a difenderle o a proteggerle in nessun modo, avendo nel cuore lo strazio e la certezza che stavano bruciando vive!” Concludendo, tra le lacrime, il loro discorso con una perentoria richiesta: “Compagna Comandante, per onorare la memoria delle nostre Compagne, le chiediamo di essere nuovamente retrocesse ai ruoli di semplice pilota e navigatore”…
La Bershanskaya lasciò che terminassero di piangere ed estraendo da un cassetto della scrivania tre bicchierini e una bottiglia di vodka, disse: “Calma Compagne, comprendo il vostro strazio e sono anch’io addolorata per la loro perdita ma ora calmatevi e beviamo alla loro memoria, domani quando sarete più lucide è più tranquille ne riparleremo” e, indicando con il capo la porta, le congedò. Più tardi, in mensa, il borsch caldo della compagna cuoca Ludmilla e una robusta razione di vodka, offerta dal commissario politico, consentì loro di andare a letto e chiudere gli occhi senza problemi ma, nelle loro menti, si era stampata indelebilmente l’immagine dei quattro roghi degli aeroplani che bruciavano nella steppa, proiettando nel cielo scuro milioni di scintille infuocate.
L’autopunizione
L’indomani mattina di buon’ora, Vera e Tatyana raggiungono la baracca comando e portano con loro un foglio ripiegato, si tratta del piccolo manifesto di propaganda patriottica, distribuito da Nina Nikulina, il Commissario Politico del reggimento, per rinfrancare e rinsaldare lo spirito delle combattenti del 588°. Prima di scrivere la comunicazione nella quale chiedono di essere entrambe retrocesse, si sono consultate e hanno deciso di non usare la carta bianca così preziosa per i calcoli trigonometrici delle rotte tracciate da Vera mentre, per il loro scritto, utilizzeranno il retro del manifestino patriottico.
Con questo, sono certe che con tale лист бумаги (foglio di carta) il Comandante non potrà rifiutare loro la retrocessione ai ruoli di pilota e navigatore. Infatti, l’immagine del manifestino raffigura un soldato con la bandiera rossa in una mano e con il fucile nell’altra, che corre verso il nemico per lottare per la patria e per Stalin (за партию и за сталина — per la Patria e per Stalin). Mentre, sul retro-bianco, sono stati annotati nomi delle compagne cadute: Evdokija Ivanovna Nosal, Evgenija Maksimovna Rudneva, Aleksandrovna Sanfirova, Nina Zacharovna Uljanenko, Evdokija Nikulina, Irina Fëdorovna Sebrova, Maguba_Gusejnovna_Syrtlanova, Marina Pablovna Cecneva e la richiesta di retrocessione. Alla vista di questi fogli, il comandante Bershanskaya storce il volto in una smorfia dolorosa, si alza in piedi, legge i nomi delle cadute, saluta militarmente, pone un timbro e una firma sui due fogli e congeda il tenente Navigatore Vera Belik e il tenente Pilota Tatyana Makarova.
Distruggere il deposito di munizioni
Il fronte si sposta e il 588° Reggimento segue i suoi spostamenti. Così, Belik e Makarova compiono una serie di missioni in Ucraina, nell’area del Kuban del Caucaso settentrionale, in Crimea, in Bielorussia e infine in Polonia, diventando il primo equipaggio del Reggimento a volare sul suolo tedesco.
Le missioni e le sortite si susseguono e la notte del 25 agosto 1944, Belik e Makarova si alzano in volo per compiere la loro 813a sortita. Calata la notte, Vera e Tatyana hanno già preso posto nella carlinga, il motore si accende prontamente e comincia a ronzare come una paziente libellula, Olga toglie i ceppi che bloccano il carrello e, al segnale di Irina, che tende il braccio gridando: “Davai — avanti”, il loro Polikarpov rulla sull’erba, acquista velocità e decolla in direzione di Ostroleka.
L’obiettivo è un deposito di munizioni a bordo di una chiatta, ancorata in un’ansa del fiume Narew. Se potessero individuarlo e colpirlo, i “fuochi d’artificio” provocati dalla esplosione forse potrebbero essere visti anche dalle compagne che si trovano nel loro campo d’aviazione. Con questo proposito Vera, aveva calcolato una rotta, lungo il fiume, gridando a gran voce le piccole correzioni di rotta a Tatyana: “Davai — avanti, Pravo — destra, Levo — sinistra… e ancora i punti cardinali: Sever — nord, Yug- sud, Vostok est, Zapad — ovest e i corrispondenti gradi di correzione”.
Mentre sono in prossimità dell’obiettivo, volando sopra le cime degli alberi, si alza il vento e la luna crescente del 25 agosto illumina la loro sagoma e le fronde in movimento. Tatyana tira la cloche e grida: “Salgo di quota per sicurezza…”. Con la manetta al massimo, il Polikarpov comincia lentamente a salire: 150, 200, 250, 300 piedi, volo livellato e Vera, sporgendosi dalla carlinga, riesce a seguire con lo sguardo, la sinuosità del fiume.
La croce di ferro contro le eroine immortali
Il FW190 appare all’improvviso e comincia a sparare con tutte le armi di bordo, il primo passaggio non colpisce il loro velivolo a causa della differenza di quota, ma il suo pilota si vuole guadagnare la “Croce di Ferro”, riprende quota e, con un’ ampia virata si prepara a scendere in picchiata per colpire il povero “aereo pannocchia” e le sue occupanti.
Tatyana grida di nuovo: “Tieniti forte Vera”, mentre fa abbassare il muso del velivolo per raggiungere le cime degli alberi e mettersi al sicuro, ma il FW 190 è nella loro scia. Una raffica di “proiettili traccianti” lo raggiunge e il Polikarpov prende fuoco come un fiammifero. Vera urla disperata: “Qui brucia tutto…” poi la sua voce si spegne in un rantolo… e Tatyana lancia il velivolo in fiamme contro gli alberi che costeggiano il fiume, forse sperando che le fiamme possano raggiungere il loro obiettivo. Uno schianto, seguito da una esplosione e poi tutto tace. L’ignoto pilota tedesco ha guadagnato la sua “Croce di Ferro”, mentre il tenente Navigatore Vera Belik e il tenente Pilota Tatyana Makarova dovranno attendere il 23 febbraio 1945 per essere proclamate “Eroi dell’Unione Sovietica”.
Le streghe della notte sopra la Porta
Brandeburgo
Per concludere il racconto del 588° Reggimento, bisogna anche dire che Marina Raskova, ideatrice e promotrice di questa unità, non fece in tempo a vedere il successo delle “Streghe” e la fine della guerra, perché si schiantò sul Volga ghiacciato durante una tempesta di neve, il 4 gennaio 1943, mentre cercava di raggiungere Stalingrado, con il suo bombardiere del 587° reggimento, perendo assieme al suo equipaggio. Le sue ceneri sono sepolte nel muro del Cremlino dedicato agli eroi.
Diversa la sorte di Evdokiya Bershanskaya, che fu al comando del 588° per tutta la durata della guerra e ne vide la sua fine. Grazie alla sua non comune intelligenza e il suo profondo senso pratico, crebbe insieme al suo Reggimento e seppe sfruttare al massimo il potenziale delle sue “Streghe” e dei poveri mezzi bellici in dotazione.
Partecipando spesso alle missioni con i suoi piloti, garantendo prontezza ed efficienza e, avendo sempre pronti in ogni momento, equipaggi, velivoli e le sue “Streghe” legate tra di loro e a lei dai profondi vincoli della fratellanza-sorellanza, furono notate dagli alti comandi e per tutte loro cominciarono ad arrivare, sempre più numerose, le onorificenze.
Benché fosse uno dei comandanti di volo più onorati dell’URSS, alla fine della guerra, quando il reggimento fu sciolto, nonostante fosse stata nominata colonnello, scelse di non capitalizzare il suo prestigio e le sue medaglie, seguendo la sorte delle sue “Streghe”, si ritirò a vita privata. Come la Raskova, è stata sepolta nel cimitero degli eroi.
Nonostante fossero il reggimento più decorato, le “Streghe della notte” vennero vergognosamente escluse dalla parata durante i festeggiamenti per la fine della guerra. I loro aerei vennero ritenuti troppo lenti… e la sola concessione fu che il 2 maggio 1945, Irina Sebrova e Natalya Meklin volteggiassero in ricognizione sopra la Porta di Brandeburgo, con il piccolo Polikarpov, in memoria e per ricordare tutte le giovanissime “Streghe” cadute nella lotta contro il Terzo Reich.
Parte 2.
Il coraggio nella quotidianità delle donne italiane durante la Seconda guerra mondiale
La guerra rappresenta quell’evento che determina per eccellenza lo sconvolgimento di ogni genere di situazione: personale, famigliare, sociale e nazionale. Essa implica la frantumazione di ogni situazione vissuta in tempi normali, la quotidianità, la famiglia, gli affetti, l’ordine sociale e ogni altro aspetto che determina la vita di relazione tra le persone.
A cercare di conservare o di mantenere la normalità, seppure in una condizione di sopravvivenza, nel corso della Seconda guerra mondiale caratterizzata dall’incertezza, dalla fame, dalla paura, dagli incubi, dall’orrore, in Italia e nel resto del mondo, hanno provveduto le donne rimaste sole, poiché i loro uomini sono stati richiamati a combattere sui vari fronti, con l’aggravante che quest’ ultimo conflitto è riuscito a travolgere ogni cosa e ogni essere direttamente o indirettamente coinvolto.
Per sfuggire alla morte, le donne hanno messo in atto innumerevoli espedienti per sé e per i propri familiari, ma anche per gli sconosciuti: soldati sbandati, italiani e stranieri, ebrei, oppositori, antifascisti, carcerati, chi era destinato al lavoro coatto in Germania; per coloro quindi che non facevano parte della propria famiglia, neppure della propria comunità di appartenenza, dilatando i confini di quest’ultima e facendo acquisire ai loro atti la valenza della responsabilità civica, politica nel senso puro del termine.
Cogliere appieno il senso di questa affermazione non è semplice, perché bisognerebbe ricostruire le condizioni di vita delle donne italiane negli anni della guerra sia pure a grandi linee, una realtà ben più complessa di quanto le vicende narrate nei racconti seguenti possano ricomporre e ricreare. Essi comunque assumono il valore simbolico del ricordo e del farne memoria per consolidare e mantenere i diritti delle donne e la pace tra i popoli.
Quando Mussolini, il 10 giugno 1940, dichiara l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, iniziata da Hitler nove mesi prima, le donne italiane sono ancora “cittadine incompiute” prive di diritti politici come di gran parte di quelli civili; non legittimate ad assumere decisioni neppure all’interno dell’ambito familiare; sottomesse all’uomo di casa (padre, marito, fratello che fosse) o di un tutore; remissive nonostante le dure condizioni di vita, soprattutto in campagna o in fabbrica e in famiglia; per la maggior parte analfabete o quasi, tanto era considerato inutile investire nella loro istruzione, dal momento che si sarebbero sposate presto e avrebbero dovuto dedicare tutte le loro energie, le proprie abilità alla cura della casa e dei componenti del nuovo nucleo familiare.
Se avevano compiuto ventotto anni ed erano ancora senza marito potevano rischiare di essere considerate zitelle e perdere molto del proprio “valore” all’interno di una società basata sulla soggezione femminile all’uomo, pronta a riconoscere loro solamente la finalità meramente riproduttiva.
Le italiane dei ceti più poveri a quel tempo erano definite perlopiù dalle numerose gravidanze, che spesso le stroncavano — insieme alle fatiche — intorno ai quarant’anni. L’ideale femminile era stato modellato attraverso i secoli con il concorso fondamentale della Chiesa e consisteva nell’immagine della buona madre e sposa, modesta ed umile, felice di vivere all’interno dello spazio privato, circoscritto tra la casa del padre e quella del marito, ubbidiente, desiderosa di appagare il proprio uomo e i propri figli e le era concesso di lavorare anche fuori casa esclusivamente per necessità economica, per l’integrazione dello stipendio del marito, altrimenti era malvista e mal giudicata.
Sebbene la Prima guerra mondiale avesse sottratto gli uomini alle case e al lavoro ed avesse costretto le donne a diventare capofamiglia, svolgendo quelle attività fino a quel momento loro precluse, quell’immane e tragico evento mondiale non aveva scardinato i paradigmi dell’ordine sociale.
Probabilmente tutto ciò era stato vissuto come una inaspettata necessità dalla maggior parte delle donne, che obbligatoriamente, ma abbastanza disciplinatamente tornano “al loro posto”, forse sfinite da anni di fatiche e di solitudine, felici del ritorno del loro uomo per ragioni di cuore o di considerazione sociale; nonostante il fascismo si fosse presentato come un movimento in grado di interpretare le esigenze di modernizzazione dell’Italia, raccogliendo quindi consensi e approvazione tra le classi femminili più colte e più abbienti.
Mentre tra le classi più povere e meno istruite vengono poste al centro dell’attenzione nazionale la “massaia rurale”, ovvero la contadina e la “madre prolifica”, sempre pronta a rispondere alla mussoliniana richiesta degli “Otto milioni di baionette”, da scagliare contro i nemici del regime.
Nei primi anni della guerra il rapporto tra le donne e il fascismo è comunque rimasto complesso e contraddittorio, diviso tra la condivisione, la disillusione e il successivo rifiuto, seppure mantenendo il coraggio della quotidianità che, dopo l’8 settembre 1943 e la sconfitta del regime fascista, si è trasformato in testimonianza del coraggio degli isolati e degli indifesi.
Quindi, diverse donne invece, per dirla con una metafora, indossano i pantaloni e diventano combattenti e collaborano in modo più attivo con i movimenti che si oppongono al nazifascismo, propugnano la libertà e, nella ritrovata eguaglianza, combattono anche per l’affermazione dei diritti delle donne e la pace tra i popoli.
Storia esemplare di un’infermiera: l’assistenza, il conforto e la cura nel pericolo
Buio. Un buio fitto, impenetrabile, quasi tangibile, scalfito a tratti da sottilissime lame di luce, provenienti da finestre malcelate da una pesante carta blu come imponevano allora le leggi del coprifuoco. Era inverno e il secondo conflitto mondiale aveva travolto e stravolto tutta l’Europa, Italia compresa.
Il cielo lattiginoso aveva ridotto la già scarsa visibilità quasi a zero, rendendo indistinguibili i contorni delle case e delle vie. A Milano era caduta una grande quantità di neve, che aveva spazzato via anche l’ultimo brandello di cielo e tutto si confondeva in un’unica massa bianca con le nuvole compatte e impenetrabili.
Il freddo era intenso e pungente e, in queste condizioni così estreme, una figura scura arrancava faticosamente sul manto nevoso della strada. Con delle galosce ai piedi, ciabattava prudente sul terreno scivoloso, infagottata in una pelliccia che aveva visto tempi migliori, con un grande cappello di feltro di foggia quasi maschile a larghe falde, per proteggerle il viso. In una mano teneva una valigetta simile a quella dei medici mentre con l’altra, in tasca, teneva saldamente l’impugnatura della sua piccola torcia, che in caso di emergenza poteva utilizzare per illuminare per un tempo brevissimo il cammino davanti a sé.
Non poteva permettersi il lusso di scivolare e tanto meno di cadere, perché era l’unica infermiera con regolare permesso di circolazione notturna, nel pieno delle sue funzioni, che a qualsiasi ora, raramente rifiutava il soccorso o l’aiuto. In quel momento, nonostante la recente terribile nevicata, aveva urgenza di recarsi al capezzale di un suo piccolo paziente, che le stava particolarmente a cuore, affetto da una grave forma di bronchite, che aveva necessità delle sue cure, per poter superare la fase acuta della malattia, perché purtroppo gli antibiotici non erano ancora alla portata di tutti.
L’abitazione del piccolo malato si trovava nei pressi della Stazione Centrale, zona pericolosa perché, in quanto rete ferroviaria cruciale, era un obiettivo ambito dai bombardieri alleati.
Inoltre, anche gli inglesi, con il loro aereo soprannominato Pippo, compivano incursioni notturne di bombardamento, incutendo un “sacro” terrore nel Nord dell’Italia; un aereo fantasma solitario e che, come un fantasma si muoveva nella notte, provocando anche pesanti danni psicologici nella popolazione.
Nell’assoluto silenzio surreale di quella gelida sera, interrotto soltanto dallo sgocciolio di qualche grondaia rotta, era parso a Tina, questo il nome dell’infermiera, di sentire dei flebili lamenti, che sembravano provenire dagli argini di un piccolo corso d’acqua che scorreva nei pressi, il Naviglio della Martesana. Sulle prime aveva pensato a qualche cane o gatto che, accecato da tutto quel biancore poteva aver smarrito la strada di casa ma, avvicinandosi sempre più, i gemiti sembravano quelli di una persona in pericolo che, scivolata sulla neve ghiacciata, si fosse ferita e bisognosa di aiuto. Con molta attenzione e un po’ di timore, Tina accende la sua piccola torcia, la scherma con la mano guantata e fruga con il flebile raggio di luce che emette le rive del piccolo fiume intorno a lei, seguendo l’eco dei lamenti. Gli occhi si abituano alla penombra e, a un tratto, scorge un cumulo di macerie, con degli stracci. No, no… non sono stracci, si tratta di una persona rannicchiata, in una posa contorta, rattrappita dal freddo e dal dolore. La donna affretta il passo, si china e si trova di fronte a uno spettacolo straziante. Si avvicina ancora e come può cerca di rassicurare quel misero mucchio di ferite e di dolore. Piano piano gli solleva la testa, il viso è un grumo di sangue, sfigurato dai colpi ricevuti: pugni, calci, bastonate in ogni parte di quel povero corpo martoriato, che qualcuno degli assalitori aveva anche aggredito con una lama, provocando, per fortuna solo ferite di striscio. “Siamo alle solite” pensò “un’altra vittima dei fascisti…”
Da vent’anni circa (1922), ben prima che scoppiasse il conflitto mondiale, con l’ascesa di Benito Mussolini al potere e l’avvento del fascismo, in Italia si era creata un’atmosfera opprimente e irrespirabile: o si era con il Duce, dal latino dux “quello che deteneva il comando assoluto” nel suo pugno di ferro o si era contro. I suoi sostenitori avevano addirittura coniato un detto: “Il Duce ha sempre ragione”. In un tale clima politico o si era di fede fascista o si era contro. Non esistevano vie di mezzo. I comunisti e i socialisti erano tutti da estirpare con ogni mezzo come le erbacce, ma anche quelli che potevano essere ritenuti simpatizzanti venivano sottoposti a ogni tipo di tortura, la più in voga, poco dispendiosa e altrettanto efficace consisteva nel far ingurgitare al malcapitato preso di mira, litri di olio di ricino. Non si contavano i pestaggi di poveri cristi colti alla sprovvista, ignari di aver commesso qualche misfatto contro il governo, per tacere degli arresti e di qualche omicidio di strenui oppositori al regime, eseguiti su commissione.
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