— Credo che tu debba consultare un medico, hai una dipendenza dal computer.
— Cara, non è una dipendenza, è il mio lavoro!
Da una storia vera
Introduzione
Vi propongo un esperimento.
Prima di leggere questo libro, mettete da parte il telefono, il laptop e osservate quanto riuscite a resistere vivendo senza dispositivi mobili e Internet.
Se siete riusciti a stare più di 24 ore senza smartphone e senza navigare in rete, senza sentire il bisogno di controllare i social network e i messaggi, allora va tutto bene.
Se vi è capitato di pensare al telefono e ai social un paio di volte, forse avete una certa dipendenza da Internet, ma potete ancora superarla da soli.
Se, dopo aver messo via il telefono, avete provato irritazione, aggressività e avete cercato di compensare con alcol, droghe, sport o cibo spazzatura, allora siete dipendenti e avete bisogno di un aiuto professionale.
Se non riuscite proprio a staccarvi dallo smartphone e siete convinti che senza Internet la vita non esista o sia grigia e noiosa, mi spiace dirlo: avete un serio problema di dipendenza comportamentale e dovete agire, perché da soli non ne uscirete.
Uno degli aspetti più paradossali delle dipendenze comportamentali è che spesso vengono percepite come un’espressione di libertà personale. La persona crede di scegliere autonomamente quanto tempo passare al computer, cosa comprare o quanto lavorare. In realtà, però, queste azioni diventano compulsive e incontrollabili, portando alla perdita della vera libertà di scelta.
Inoltre, le dipendenze comportamentali possono creare un falso senso di controllo sulla vita. Ad esempio, una persona affetta da shopping compulsivo potrebbe credere che acquistare un nuovo oggetto la aiuti a gestire lo stress o a migliorare l’umore. In realtà, si tratta solo di un sollievo temporaneo, dopodiché il problema ritorna con rinnovata intensità.
Le dipendenze comportamentali rappresentano una grave minaccia per la salute mentale e fisica dell’individuo. Generano un’illusione di libertà che, in verità, è una forma di schiavitù. Per superare questo problema sono necessarie misure complesse, che includano sia un lavoro individuale con psicologi sia cambiamenti nell’ambiente sociale. Solo così è possibile restituire alla persona la vera libertà e il controllo sulla propria esistenza.
Il concetto di dipendenza comportamentale rappresenta uno dei temi più urgenti nella psicologia e sociologia contemporanee. Nel contesto dello sviluppo tecnologico accelerato e dell’ambiente digitale, le dipendenze comportamentali stanno diventando fenomeni sempre più diffusi.
Lo scopo di questo libro è analizzare il fenomeno delle dipendenze comportamentali moderne. La dipendenza non chimica, così come quella da sostanze psicoattive, è legata alla perdita di autocontrollo. La dipendenza nasce dall’irresistibilità dei desideri e dalla motivazione a provare emozioni positive intense. E chi di noi non ama le emozioni positive?
L’essere umano dipende da molte cose che gli appaiono naturali: adoriamo perderci tra immagini e video divertenti sui dispositivi, chattare nei messaggi, fare sport per piacere, mangiare dolci o arance, guardare una serie TV per più puntate di fila. All’uomo moderno risulta difficile rinunciare a varie abitudini, più o meno dannose. Ogni dipendenza persegue l’obiettivo di ottenere un piacere immediato, una ricompensa a breve termine. Ma sappiamo bene che, in cambio di questa gratificazione momentanea, la persona finisce per pagare un prezzo a lungo termine, con esiti negativi.
La dipendenza è un comportamento distruttivo che si forma quando un individuo cerca di fuggire dalla realtà, evitando situazioni spiacevoli o periodi difficili della vita alterando il proprio stato mentale.
Lo psichiatra russo A. O. Bukhanovskij definisce il comportamento dipendente come un disturbo mentale cronico, che rappresenta una deformazione patologica della personalità. Bukhanovskij sottolinea inoltre che le motivazioni alla base delle azioni compulsive non sono razionalmente analizzabili nel momento stesso in cui si manifestano, e spesso causano sofferenza sia alla persona dipendente che alla sua famiglia. I danni derivanti dalla dipendenza possono assumere varie forme: mediche, psicologiche, materiali e persino legali.
V. D. Mendelevič, autore di studi nel campo della psicologia clinica e della psichiatria, ritiene che alla base della narcologia classica russa vi sia un paradigma errato di patologizzazione dei disturbi narcologici. Tuttavia, la definizione di “attrazione/addiction compulsiva” rimane scientificamente valida sia per le dipendenze chimiche che per quelle non chimiche.
Mendelevič evidenzia che il principale criterio diagnostico per qualsiasi dipendenza è la presenza di uno stato alterato di coscienza. Se nelle dipendenze chimiche tale stato è indotto dall’uso di sostanze psicoattive, nelle dipendenze non chimiche esso deriva da specifici modelli comportamentali — stereotipi d’azione che compromettono la qualità della vita. Nonostante in Russia le dipendenze non chimiche non rientrino tra le priorità di psichiatri e narcologi, esse non solo sono teorizzate nei manuali, ma vengono regolarmente riscontrate nella pratica clinica psicologica.
Sebbene le dipendenze non chimiche possano avere un impatto meno grave sulla salute fisica, a livello finanziario, sociale e psicologico possono provocare danni considerevoli. Questa forma di dipendenza si sviluppa spesso all’interno delle dinamiche familiari. La famiglia rappresenta infatti uno dei principali fattori scatenanti, ragion per cui la psicoterapia familiare costituisce l’approccio terapeutico più appropriato.
Nel 2015, T. Robins e L. Clark, nel loro studio, hanno evidenziato che le dipendenze chimiche e non chimiche condividono meccanismi biologici comuni. Questa scoperta implica che alcune forme di dipendenza comportamentale possano rispondere agli stessi approcci terapeutici utilizzati per le tossicodipendenze. La dipendenza non chimica si caratterizza per una ricompensa immediata, costi fisici a lungo termine e rischi multidimensionali. Prendiamo il caso di chi utilizza contenuti video per alleviare stati d’ansia o malinconia, ottenendo un’effimera euforia: alla base di queste condotte troviamo spesso un deficit nella regolazione emotiva, capacità che normalmente consentirebbe di indirizzare il comportamento verso azioni più funzionali. Chi soffre di ludopatia, shopping compulsivo o disturbi alimentari sperimenta progressivamente una riduzione delle emozioni positive. La ripetizione degli stessi comportamenti ricercati porta inevitabilmente all’assuefazione, con la scomparsa dell’effetto novità.
Questo fenomeno spiega perché la persona dipendente, di fronte al calo d’intensita emotiva, non solo persiste nelle stesse condotte ma incrementa progressivamente l’impegno per ottenere lo stesso effetto iniziale. Gli uomini che sviluppano dipendenze da contenuti video, ad esempio, si trovano costretti a cercare materiali sempre più estremi quando quelli usuali perdono il loro potere gratificante. L’assenza di risposta positiva innesca così un circolo vizioso di ricerca compulsiva, che può portare a contenuti socialmente inaccettabili. In questo contesto, come possiamo distinguere tra comportamento normale e patologico?
Immaginate di osservare una colonia di pinguini imperatori: tutti grandi, slanciati, neri e maestosi, con delle piume gialle sopra gli occhi che, se fossero umani, definireste ‘sopracciglia glamour’. Tra questo gruppo omogeneo, l’attenzione cade su un pinguino albino, piccolo, completamente bianco e goffo, e vi ritrovate a pensare: “Questo non dovrebbe esistere. È inaccettabile secondo gli standard di bellezza dei pinguini imperatori!”
Ebbene, la norma odierna è uno standard accettato dalla maggioranza, dall’intera società. La dipendenza dal porno, ad esempio, non è ancora considerata pienamente ‘normale’ nel contesto attuale. Esistono numerose altre forme di dipendenza non chimica, ma il problema della pornodipendenza continua a ricevere scarsa attenzione. Gli uomini affetti da questa dipendenza comportamentale, nel tentativo di liberarsi dalla visione sistematica di materiale pornografico, riferiscono durante la psicoterapia che un approccio radicale (‘smetto bruscamente e non guarderò mai più quei video’) porta a uno stato paragonabile all’astinenza da sostanze psicoattive. Tuttavia, questa forma di astinenza non comporta conseguenze mediche gravi.
Nella sindrome d’astinenza da dipendenze non chimiche mancano completamente sintomi come la crisi ipertensiva e, in generale, non si riscontrano alterazioni fisiologiche significative. Tuttavia, quando si decide improvvisamente di abbandonare videogiochi, navigazione ossessiva online o l’uso compulsivo dei dispositivi, la persona sperimenta non solo umore depresso, ma anche aggressività, rabbia e irritazione — emozioni difficili da controllare.
Nella formazione di qualsiasi dipendenza sono coinvolti i sistemi neurotrasmettitoriali del nostro organismo. Ne parlerò brevemente, per non stancare il lettore. Protagonisti di questo processo sono: la serotonina, responsabile dell’inibizione comportamentale, e la dopamina, che regola il sistema di ricompensa, la motivazione, l’apprendimento e la valutazione degli stimoli. Il sistema dopaminergico risulta fondamentale nello sviluppo delle dipendenze non chimiche.
Le ricerche neurobiologiche hanno evidenziato alterazioni funzionali nella corteccia prefrontale dei soggetti predisposti a dipendenze, sia chimiche che comportamentali. Quest’area cerebrale controlla l’impulsività e l’inibizione delle azioni. Oltre alla corteccia prefrontale, durante attività come il gioco d’azzardo, l’acquisto di biglietti della lotteria, la navigazione online o i videogiochi, si attivano l’amigdala e il sistema mesocorticolimbico. L’attivazione persistente di queste aree, combinata con una ridotta efficienza della corteccia prefrontale, consolida i modelli comportamentali tipici della dipendenza, favorendone così l’insorgenza.
L’uso di sostanze psicoattive o il coinvolgimento in dipendenze non chimiche possono originare dallo stesso processo scatenante. Conflitti familiari persistenti, litigi, problemi lavorativi e situazioni di stress cronico, combinati con una carenza di capacità di autoregolazione e di resistenza allo stress, creano infatti un terreno fertile sia per l’alcolismo e la tossicodipendenza, sia per le dipendenze comportamentali.
Anche i fattori ereditari svolgono un ruolo determinante: se un genitore ha sofferto di dipendenze da droghe o alcol, i figli, in particolari circostanze, potrebbero sviluppare tendenze analoghe o cadere in dipendenze come il gioco d’azzardo, la cleptomania, l’uso compulsivo di internet o la pornodipendenza.
V. D. Mendelevič include nel comportamento dipendente anche il fanatismo religioso, politico o sportivo, evidenziando come qualsiasi aspetto della vita, se vissuto con eccessivo coinvolgimento, finisca per danneggiare sia l’individuo che i suoi affetti.
Attualmente i ricercatori hanno elaborato diverse classificazioni delle dipendenze non chimiche. Di seguito presentiamo quella proposta da A. V. Kotlyarov, che include le seguenti forme di addiction:
— dipendenza dall’aspetto fisico: ossessione per trattamenti estetici, ricerca compulsiva di un ideale di bellezza imposto dai trend social;
— dipendenza da ideologie: fanatismo religioso, adesione a sette, pratiche astrologiche ed esoteriche;
— dipendenza esistenziale: ricerca ossessiva del senso della vita, tendenza a filosofeggiare in modo estremo a discapito di altri ambiti (es. abuso di psicoterapia con ‘intossicazione metafisica’);
— dipendenza sessuale: promiscuità, ninfomania, consumo compulsivo di materiale pornografico, dipendenza dall’innamoramento;
— dipendenza dalla solitudine: bisogno patologico di isolamento con ripercussioni negative sulla qualità della vita;
— relazioni codipendenti;
— dipendenze digitali: gaming compulsivo, navigazione ossessiva in rete, attrazione per attività di hacking illecite;
— dipendenza dai media: consumo smodato di televisione, pubblicità, contenuti social e serie TV;
— dipendenza economica: ossessione per il denaro, lo status materiale e le gerarchie sociali basate sulla ricchezza;
— gioco d’azzardo patologico (gambling disorder);
— workaholism: approccio ossessivo al lavoro;
— shopping compulsivo: acquisti incontrollati su e-commerce e piattaforme digitali;
— dipendenza da dispositivi: abuso di smartphone e tecnologie digitali;
— dipendenza vittimistica: comportamenti masochistici, sindrome di Stoccolma, condotte aggressive (sadismo, ricatto sistematico).
Altre forme includono: grafomania, urgenza cronica (‘sindrome della mancanza di tempo’), binge reading, guida spericolata e ossessione per l’attività fisica.
In questo libro non sono elencate tutte le dipendenze non chimiche, ma alcune di esse rientrano nella classificazione multiassiale dei disturbi mentali e possono accompagnare patologie più gravi come la schizofrenia.
La formazione di una dipendenza non chimica è influenzata da una serie specifica di fattori: non solo l’educazione familiare e l’ambiente sociale, ma anche il contesto culturale-nazionale nel suo complesso, nonché la mentalità dell’individuo e del gruppo sociale di appartenenza.
I dati teorici ed empirici che chiariscono l’essenza delle dipendenze non chimiche rimangono oggi limitati, circostanza che ostacola l’inclusione di tutte le forme di dipendenza comportamentale nei moderni sistemi di classificazione psichiatrica. La carenza di ricerche approfondite alimenta un acceso dibattito in ambito medico, biologico e psicologico: è realmente appropriato considerare la dipendenza comportamentale un disturbo piuttosto che una scelta di vita personale?
La questione del supporto medico nel trattamento delle dipendenze non chimiche purtroppo rimane irrisolta nella psichiatria contemporanea, principalmente a causa della limitata comprensione del fenomeno. Particolarmente preoccupante è la crescente diffusione di tali dipendenze tra bambini e adolescenti. Gli strumenti che possono condurre a queste forme di dipendenza sono ampiamente disponibili: dai dispositivi tecnologici ai messaggi istantanei, dai videogiochi alla navigazione compulsiva in Internet.
L’analisi degli studi sul comportamento di adolescenti e bambini nell’ambito della pratica psicoterapeutica e psicologia clinica evidenzia il ruolo predominante dei videogiochi come attività principale per i soggetti in età scolare. Durante lo sviluppo, attività fondamentali come lo studio, gli hobby, le relazioni sociali, la lettura o semplici attività all’aria aperta vengono gradualmente e impercettibilmente sostituite dai giochi digitali.
Un adolescente totalmente assorbito dal mondo digitale dei videogiochi mostra tipicamente un elevato grado di immaturità emotiva e psicologica. Questa condizione di infantilismo si traduce in una marcata dipendenza nelle situazioni quotidiane, relazioni amicali fragili nel mondo reale e una tendenza all’isolamento domestico.
Le tecnologie digitali avanzano inarrestabilmente, e la società moderna non può eliminarle completamente dalla propria vita. Restrizioni rigide e comportamenti manipolatori da parte degli adulti (“Se non fai i compiti, ti tolgo il cellulare”) si rivelano inefficaci.
Le tecnologie dell’informazione svolgono un ruolo cruciale nella nostra esistenza, essendosi radicate saldamente negli ambiti commerciale, comunicativo, produttivo e culturale.
Attraverso l’immersione nel mondo tecnologico, sportivo o lavorativo, le persone cercano di sfuggire alle proprie difficoltà. Per un adolescente moderno, timido e fragile, incapace di affermarsi tra amici e compagni di classe, e che soffre della mancanza di attenzione familiare, il rifugio nei videogiochi o nella visione di contenuti online diventa un modo per attenuare le emozioni negative e le frustrazioni della vita reale. La scelta di un personaggio virtuale ‘potenziato’ e competente può rappresentare una compensazione al rifiuto che l’adolescente prova verso se stesso.
Anche il sistema di ricompense dei videogiochi agisce in modo subdolo: ciò che il ragazzo non riesce a ottenere nella realtà — come successo nello studio, nelle relazioni o in altri ambiti — lo acquisisce nel gioco. È un modo per sentirsi importante, un supereroe. Se per i giovani il rifugio in un mondo virtuale può compensare carenze significative, per gli adulti l’immersione in una dipendenza non chimica diventa anche un modo per evitare le responsabilità della vita reale.
La maggior parte dei giochi online moderni offre l’illusione della competitività. L. O. Perezhogin e N. V. Vostroknutov ipotizzano che il gaming rappresenti tra gli adolescenti la forma più diffusa di dipendenza non chimica contemporanea.
M.G. Chukhrova osserva che la prevalenza di queste dipendenze varia geograficamente: in Italia, la dipendenza da Internet interessa lo 0,8% della popolazione, mentre a Hong Kong raggiunge il 26,7%. Lo sviluppo della dipendenza non dipende esclusivamente da fattori demografici, socioeconomici o dal contesto sociale, bensì anche da una predisposizione genetica. Tuttavia, non è possibile attribuire tutto ai soli fattori genetici. Sia le dipendenze chimiche che quelle comportamentali sono influenzate non soltanto da ‘vulnerabilità genetiche’, ma anche da processi fisiopatologici e da comorbilità, presenti sia in età evolutiva che in quella adulta.
Nella contemporaneità, lo shopping compulsivo, l’eccessivo coinvolgimento nei videogiochi e nei social media, il workaholism, l’ossessione per l’esercizio fisico, i disturbi alimentari, la promiscuità sessuale e altre forme di comportamento dipendente producono ripercussioni sociali negative. Questi fenomeni presentano una natura paradossale: alcuni, come il workaholism o le dipendenze sportive, godono addirittura di una certa accettabilità sociale.
Il dibattito scientifico tra psichiatri, psicologi clinici, neuroscienziati e terapeuti comportamentali rimane acceso: le dipendenze non chimiche devono essere equiparate a veri e propri disturbi o possono essere considerate semplicemente come espressioni estreme del repertorio comportamentale?
Le Dipendenze nel Mondo Animale
Le dipendenze non affliggono solo gli esseri umani. Comportamenti analoghi sono osservabili anche nel regno animale. In ambito sperimentale, ricercatori di tutto il mondo studiano l’insorgere di vari stati di dipendenza nei nostri ‘fratelli minori’
Ad esempio, non solo gli animali domestici a contatto con l’uomo assumono alcol o sostanze psicoattive. In alcuni casi, è lo stesso essere umano a dare il cattivo esempio, offrendo alcolici ai propri compagni animali. Tuttavia, anche in natura si riscontra il consumo di etanolo presente nella frutta, che costituisce parte della dieta di uccelli, mammiferi e insetti.
Nel 2014, il neuroscienziato C. Olson dell’Università dell’Oregon, insieme ai suoi colleghi, ha analizzato i canti di diamanti mandarini (uccelli canori) “ubriachi”. I ricercatori hanno somministrato agli uccelli un succo contenente il 6,5% di alcol. Gli autori dello studio sottolineano che questi uccelli, tipicamente canori, apprendono i loro canti unici in modo simile all’acquisizione del linguaggio negli umani. Durante l’esperimento, è emerso che i diamanti mandarini non solo consumano volentieri alcol, ma dopo l’assunzione modificano la struttura del canto, iniziando letteralmente a “borbottare” ritmi e melodie indistinti in alcune parti delle loro performance. Con un elevato tasso di etanolo nel sangue, i canti diventano più silenziosi e con un’acustica alterata. I ricercatori hanno osservato non solo una riduzione dell’ampiezza delle note, ma anche un aumento dell’incertezza ritmica, dovuta alla compromissione del mantenimento del ritmo sotto l’effetto dell’alcol.
È interessante notare come nell’esecuzione dei canti siano state riscontrate modifiche negli uccelli, mentre nel comportamento generale non siano emerse alterazioni coordinative. I parametri comportamentali dei diamanti mandarini (zebre finch) dopo l’assunzione di alcol non hanno mostrato variazioni significative. Paradossalmente, pur cantando “da ubriachi”, mantenevano un comportamento sobrio. Questa ricerca innovativa ha permesso di chiarire meglio l’impatto dell’alcol sui circuiti neurali consolidati nel cervello aviario. Un ulteriore dato peculiare riguarda la differenza individuale: alcuni esemplari sotto effetto alcolico tentavano di articolare le sillabe con precisione accentuata, mentre altri presentavano evidenti confusioni ritmiche e melodiche.
In genere, gli scienziati studiano gli effetti dell’alcol sui ratti da laboratorio, gli animali domestici e i primati. Tuttavia, esiste una fondamentale differenza: mentre primati e ratti non possiedono un apparato vocale paragonabile a quello umano, negli uccelli e nell’uomo il controllo neurale e le complesse reazioni comportamentali legate alla vocalizzazione mostrano sorprendenti analogie.
I pulcini di diamante mandarino acquisiscono i loro complessi trilli vocali dai padri (i maschi infatti sviluppano un repertorio più articolato rispetto alle femmine), in un processo che ricorda l’apprendimento del linguaggio nei bambini. Questo studio sul canto degli uccelli in stato di alterazione alcolica potrebbe illuminare i meccanismi neurali alla base del nostro linguaggio. Se nell’uomo il consumo cronico di alcol provoca devastanti conseguenze, quali effetti produce invece su animali e insetti?
I biologi F. Vince, A. Zitmann, M.A. Lachance e R. Spanagel hanno documentato il comportamento dei toporagni selvatici nelle foreste pluviali della Malesia occidentale, rilevando che alcuni esemplari di questi piccoli insettivori consumano abitualmente il nettare fermentato delle gemme floreali della palma bertam locale.
Questo mammifero, lungo 5—8 cm e con un peso di 4—16 grammi, presenta un muso allungato simile a una minuscola proboscide. I toporagni malesi rappresentano gli impollinatori naturali della palma bertam.
Appartenenti alla famiglia dei Soricidi, i toporagni sono generalmente utili all’ecosistema. Sebbene possano occasionalmente diventare turbolenti — penetrando negli alveari per predare api — le circa 70 specie esistenti presentano abitudini diverse: alcune si nutrono di insetti, altre di vermi, altre ancora scavano gallerie. I toporagni malesi si distinguono però per il consumo regolare di nettare fermentato (fino al 3,8% di alcol) dalle gemme della palma bertam, la più alta concentrazione alcolica riscontrata in fonti alimentari naturali.
Il segreto risiede nei lieviti che colonizzano le gemme floreali della palma, responsabili della produzione di alcol. Nonostante ciò, i toporagni che visitano regolarmente i fiori non mostrano segni evidenti di intossicazione. Questi animali hanno sviluppato un’elevata tolleranza all’alcol, frutto di un lungo adattamento evolutivo tra la specie e la palma di bertam.
L’analisi del pelo dei toporagni ha rivelato che la concentrazione di alcol nel loro organismo è significativamente più alta rispetto a quella di un essere umano con un consumo equivalente.
I ricercatori ipotizzano che un consumo da moderato a elevato di alcol fosse già presente nei toporagni nelle prime fasi evolutive. Resta però da chiarire in che misura l’alcol apporti benefici a questi animali e come riescano a mitigare i rischi legati all’elevata concentrazione alcolica ematica
A differenza dei toporagni malesi e dei diamanti mandarini, che appaiono “sobri” anche sotto l’effetto dell’alcol senza mostrare segni di ebbrezza, un altro animale — la tupaia dalla coda piumata — consuma anch’esso il nettare della palma di bertam comportandosi in modo impeccabile. Tuttavia, questa tupaia è la più accanita frequentatrice del “bar delle palme”, consumando nettare alcolico in quantità maggiori rispetto ad altri visitatori. Possiamo solo ipotizzare che l’alcol eserciti un effetto psicologico positivo su questi animali, ma non esistono prove sostanziali a supporto.
Questo singolare “bar” nella giungla malese è frequentato regolarmente da i ratti grigi arboricoli, i ratti malesi e i lori lenti. Ma i clienti più assidui sono proprio le tupie e i lori, che trascorrono ogni notte sulla palma tra gli 86 e i 138 minuti.
B. Vince, studioso della “vita notturna” degli animali malesi, ha posizionato telecamere intorno alla palma. Nel corso dello studio, non è mai stato osservato alcun cambiamento comportamentale significativo negli animali “avventori”.
Purtroppo, nel processo evolutivo, l’uomo non ha ereditato questa resistenza all’alcol. Non ci resta che invidiare le tupie e i toporagni malesi: loro bevono senza ubriacarsi.
R. Dudley, il biologo dell’Università della California a Berkeley, ha studiato per 25 anni l’attrazione umana verso l’alcol. Nel 2014, nel suo libro “La scimmia ubriaca: Perché beviamo e abusiamo di alcol”, ha avanzato l’ipotesi che il desiderio di alcol risalga ai nostri antenati primati, i quali scoprirono empiricamente che l’odore dell’etanolo li guidava verso frutti maturi. Osservando le scimmie, Dudley notò che cercano frutti così maturi da aver subito una fermentazione degli zuccheri, con una concentrazione alcolica fino al 2%. Questi frutti fermentati vengono consumati con avidità.
Tuttavia, l’ipotesi del biologo R. Dudley ha sollevato dubbi presso la ricercatrice K. Milton, che nel 2014 ha pubblicato un articolo critico sulla rivista “Biologia Integrativa e Comparativa”. Milton sostiene che l’etanolo, anziché attrarre i primati, li allontani. Frutti con alti livelli di etanolo vengono evitati sia dagli umani che da altri primati, proprio a causa del loro odore. La studiosa sottolinea scetticamente che l’etanolo non apporta benefici: è semplicemente una tossina piacevole. La sua teoria alternativa suggerisce che l’attrazione umana per l’alcol derivi non da una “saggezza alimentare” innata (tipica dei primati), ma dall’esperienza culturale accumulata in millenni di fermentazione. Per Milton, il desiderio di alcol non ha legami con la nutrizione o la salute, ma riflette una ricerca umana di sostanze capaci di alterare la coscienza.
Se per i primati il dibattito è acceso, per gli elefanti africani la situazione è più chiara. Nel 2006, gli scienziati S. Morris, D. Humphries e D. Reynolds hanno cercato di sfatare il mito degli “elefanti ubriachi” del Sudafrica. L’Africa, ricca di folklore, tramanda storie pittoresche come quella degli elefanti che si inebriano mangiando i frutti del marula. Secondo Morris, sebbene questi pachidermi consumino occasionalmente il frutto, non esistono prove di ebbrezza in natura. Calcoli basati sulla fisiologia umana indicano che un elefante di 3000 kg dovrebbe ingerire 10—27 litri di etanolo al 7% per mostrare segni di alterazione comportamentale.
I frutti del marula contengono circa il 3% di etanolo. Considerando la dieta varia degli elefanti, l’assunzione media sarebbe di 0,3 g/kg, metà della dose necessaria per l’ubriachezza. L’ipotesi degli “elefanti alcolizzati” rimane quindi infondata.
Tuttavia, questo mito continua a perseguitare gli scienziati da anni. Nel 2023, ricercatori del Botswana hanno seguito le orme di S. Morris e colleghi nel tentativo di sfatare la leggenda degli elefanti africani ubriachi a causa dei frutti di marula in Sudafrica. T. Makopa e G. Modikwe, insieme al loro team, hanno raccolto frutti di marula su un’area di oltre 800 km² in Botswana, isolando circa 160 ceppi di lieviti presenti su di essi. Circa il 93% di questi isolati fermenta zuccheri semplici, producendo etanolo.
Nonostante il contenuto alcolico dei frutti suggerisse un possibile impatto sul comportamento degli elefanti in natura, i dati raccolti non sono bastati a confutare definitivamente il mito. La storia degli elefanti che si ubriacano e si comportano male dopo aver mangiato marula rimane avvolta nel mistero, alimentando con successo il folklore sudafricano. Se per gli elefanti non ci sono risposte certe, le api mellifere offrono invece spunti più chiari.
Gli scienziati americani I. Ahmed, C. Abramson e I. Farooq hanno osservato che il volo delle api vicino a fonti di etanolo, anche breve, può alterare la cinematica del loro corpo e delle ali. Per registrare questi cambiamenti, hanno utilizzato quattro telecamere ad alta velocità (9000 fotogrammi al secondo). Attraverso analisi statistiche, hanno studiato le variazioni cinematiche causate da concentrazioni di etanolo dallo 0% al 5%. Nelle api si modifica l’angolo di inclinazione del corpo, si riduce la frequenza del battito d’ali e aumenta l’ampiezza del loro movimento. Ma i ricercatori non hanno chiarito se ciò sia dovuto all’“ubriachezza” delle api o ad altri fattori.
Già nel 2006, lo scienziato sloveno J. Božič, insieme a C. Abramson e M. Bedenčič, aveva analizzato il legame tra etanolo e cambiamenti comportamentali nelle api. Addestrando le api a raggiungere alimentatori con soluzioni di saccarosio e di etanolo (1—10%), il team ha rilevato alterazioni nei comportamenti all’interno dell’alveare tra le api “ubriache”.
Le api comunicano attraverso una serie specifica di movimenti, una sorta di “danza”, con cui si scambiano informazioni. Quando esposte all’alcol, le api mostrano una ridotta attività delle danze oscillanti (un comportamento naturale) e un aumento delle danze tremolanti. Inoltre, le api “ubriache” effettuano scambi di cibo più frequentemente rispetto alle compagne e intensificano il rituale di pulizia del corpo. Questi cambiamenti comportamentali riflettono l’impatto dell’alcol sul loro sistema nervoso, analogo agli effetti osservati negli insetti esposti a dosi subletali di insetticidi.
Nel 2018, K. Miller, K. Kuszevska e V. Privatova hanno analizzato le reazioni adattative delle api mellifere all’etanolo. Questi insetti sono spesso utilizzati come modello semplice di invertebrati per studi sull’alcol. Sebbene siano stati documentati diversi effetti del consumo di etanolo, la resistenza ad esso — tipica dell’abuso cronico — non era stata dimostrata sperimentalmente fino a tempi recenti.
Gli scienziati polacchi hanno confermato che le api precedentemente esposte all’alcol presentano minori deficit motori rispetto a quelle naïve. Le api al primo contatto con l’etanolo mostrano segni di ebbrezza più marcati, con movimenti alterati. I dati suggeriscono che le api sviluppano una tolleranza all’alcol nel tempo, fenomeno che potrebbe ipoteticamente indicare un pattern di abuso.
Teoricamente, trasponendo questo comportamento agli esseri umani: le api con tolleranza crescente all’etanolo potrebbero diventare dipendenti?
Il culmine della ricerca sulle api esposte all’alcol è rappresentato dallo studio degli scienziati polacchi M. Ostap-Czek, M. Opałek, D. Stec e K. Miller, che hanno dimostrato la presenza di sintomi da postumi della sbornia nelle api mellifere.
M. Ostap-Czek e il suo team hanno analizzato le manifestazioni dell’alcolismo nelle api, osservando sintomi d’astinenza negli insetti. Nelle operaie alimentate a lungo con del cibo contenente alcol, dopo l’interruzione della somministrazione, è emerso un comportamento di ricerca compulsiva e un’urgente propensione a consumare etanolo quando disponibile. I ricercatori hanno anche registrato un lieve aumento della mortalità tra le api a causa dell’astinenza e del successivo accesso all’alcol.
Nel mondo degli umani, il “comportamento di ricerca” si manifesta quando un individuo, affetto da dipendenze chimiche (alcol, droghe) o comportamentali, cerca attivamente sostanze o attività per soddisfare il proprio bisogno. Un tossicodipendente, ad esempio, contatta persone in grado di procurargli droghe o frequenta ambienti ad alto rischio, cercando opportunità per l’uso.
Ma torniamo alle api. I risultati di Ostap-Czek rivelano non solo che le api sviluppano dipendenza da alcol, ma anche una forma di sindrome da postumi della sbornia.
Un altro gruppo di ricercatori polacchi, guidato da J. Korczyńska e A. Szczuka, nel 2023 ha studiato l’impatto di etanolo e acido acetico sul comportamento della formica operaia testastretta (Formica cinerea).
Nell’esperimento: un gruppo di formiche è stato esposto a dischetti di cotone imbevuti d’acqua; un secondo gruppo a dischetti con soluzione idroalcolica (etanolo + acqua); un terzo gruppo a dischetti imbevuti di acido acetico.
Sono stati condotti 30 test simultanei della durata di 5 minuti ciascuno, osservando il comportamento delle formiche.
L’etanolo e l’acido acetico, secondo le osservazioni degli scienziati, hanno causato cambiamenti significativi nei movimenti degli insetti, influenzando il comportamento esplorativo, i rituali di pulizia e il livello di aggressività delle formiche durante l’interazione con i loro simili. Le formiche esposte a dischetti di cotone imbevuti di acido acetico hanno mostrato un comportamento di avversione, mentre quelle vicino a dischetti con etanolo hanno dimostrato un aumento dell’attività esplorativa, iniziando a muoversi freneticamente sotto l’effetto della sostanza.
In natura, senza intervento umano, esiste un altro esempio interessante di come le formiche subiscano l’influenza di sostanze chimiche che ne alterano il comportamento.
Uno studio del 2015 condotto da biologi giapponesi ha descritto la singolare relazione tra i bruchi delle farfalle della sottofamiglia Lycaenidae (comunemente chiamate blu) e le formiche. Nel mondo esistono circa 5.200 specie di Lycaenidae, diffuse principalmente nelle zone tropicali, ma 450—500 di esse si sono adattate a vivere nelle regioni settentrionali del pianeta.
I bruchi delle farfalle della famiglia dei Licenidi, nel corso del processo evolutivo, si sono adattati a convivere con le formiche. Le farfalle della famiglia delle Lycaenidae sono tipiche rappresentanti delle specie mirmecofile, diffuse in Indonesia, Giappone, Taiwan, Corea del Sud e Corea del Nord.
La mirmecofilia è la capacità degli organismi viventi di coesistere con le formiche nello stesso nido o nelle loro vicinanze. I mirmecofili, pertanto, sono animali o insetti che vivono in prossimità delle formiche e da queste dipendono per un certo periodo di tempo.
Il bruco della farfalla Lycaenidae, che vive in Giappone, secerne un liquido ricco di sostanze zuccherine per attirare le formiche. Questi bruchi possiedono un organo nettario dorsale specializzato, che produce un secreto contenente neuroregolatori. Queste sostanze influenzano il sistema di ricompensa delle formiche, spingendole a restare di “guardia” accanto al bruco e a proteggerlo. Le formiche consumano il segreto, e i neuroregolatori in esso presenti le inducono a una fedeltà assoluta, trasformandole in guardiani permanenti. Un vero e proprio meccanismo naturale di controllo: la formica, una volta dipendente dal secreto, abbandona il formicaio e diventa protettrice del bruco, difendendolo da ragni e parassiti.
Un principio simile regola la simbiosi tra afidi delle piante e formiche. Gli afidi, protetti dalle formiche da predatori come coccinelle e crisope, vengono trasferiti su piante più giovani e nutrienti. In cambio, secernono una sostanza zuccherina, esempio lampante di mutualismo vantaggioso nel mondo degli insetti.
Comportamento dipendente dall’etanolo è stato osservato dagli scienziati persino nei nematodi. C. Salim, E.K. Khan ed E. Baishan, ricercatori del dipartimento di Farmacologia e Tossicologia del College of Medicine dell’Università del Tennessee (USA), nel 2022 hanno studiato la compulsività del comportamento di ricerca dell’alcol nei nematodi che vivono nel suolo. Questo nematode, sotto l’effetto di alcuni neuropeptidi, dimostra un comportamento compulsivo nella ricerca di alcol e ripetutamente non abbandona i suoi tentativi.
Tuttavia, quando i nematodi sono sottoposti all’azione di altri neuropeptidi, possono manifestare una persistente “avversione” al consumo di alcol. È possibile che, grazie a uno studio più approfondito della regolazione neuropeptidica su modelli animali, gli scienziati riescano a indurre anche negli esseri umani un’avversione al consumo di alcol.
Numerosi studi sugli effetti di alcol e sostanze stupefacenti vengono condotti dagli scienziati utilizzando roditori. Nel 2004, i ricercatori del Charleston Alcohol Research Center nella Carolina del Sud (Stati Uniti) addestrarono specificamente topi maschi di laboratorio a consumare alcol (15% di etanolo) per due ore al giorno.
Durante gli esperimenti, ai topi era garantito accesso continuo a cibo e acqua. Una volta stabilito un livello di base stabile di consumo alcolico, gli scienziati sottoposero gli animali a cicli di 16 ore di inalazione di vapori alcolici, intervallati da periodi di astinenza di 8 ore. In totale, furono applicati quattro cicli da 16 ore ciascuno, seguiti da un intervallo di 32 ore. Dopo l’ultimo ciclo di esposizione all’etanolo, tutti i topi furono osservati e testati per valutare l’assunzione di alcol in condizioni di accesso limitato per cinque giorni consecutivi. Successivamente, gli animali ricevettero una seconda serie di esposizione all’etanolo con periodi di astinenza, seguita da un ulteriore periodo di test di cinque giorni per analizzare il comportamento. A cosa portò l’esperimento?
Dopo ripetuti cicli di esposizione cronica all’alcol e l’esperienza di astinenza, il consumo di etanolo nei topi è aumentato in modo significativo rispetto ai gruppi di controllo, in cui gli animali non sono stati sottoposti ad alcun trattamento ma hanno condotto una vita normale senza alcol. In natura si osservano casi in cui animali consumano sostanze, funghi, bacche o piante che per l’uomo risultano letali o tossiche. Nel 2021, i ricercatori K. Suetsugu e K. Gomi dell’Università di Kobe (Giappone) hanno notato che gli scoiattoli locali consumano regolarmente funghi velenosi come l’amanita muscaria (muscaria) e altre specie tossiche. Questi funghi svolgono un ruolo cruciale nel mantenimento dell’ecosistema forestale. L’amanita muscaria è nota per le proprietà allucinogene dei suoi componenti tossici, come l’acido ibotenico, il muscimolo e la muscarina. Nei casi gravi di intossicazione umana, si osservano delirio, allucinazioni, convulsioni e persino esito letale. Un sintomo tipico è la distorsione visiva delle dimensioni degli oggetti.
Ora, alzino la mano coloro che hanno letto la fiaba “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll! (Chi non l’ha fatto, lo consiglio vivamente.) Ricordate la scena in cui Alice incontra il Bruco, seduto sul cappello di un fungo sconosciuto mentre fuma pigramente un narghilè? Le manipolazioni con pezzi del fungo nella storia, che causano l’alternarsi di riduzione e aumento delle dimensioni corporee, non sono altro che l’effetto di sostanze tossiche, probabilmente proprio quelle dell’amanita muscaria, sulla coscienza umana.
Tuttavia, gli scoiattoli giapponesi, nutrendosi di amanite muscarie velenose, non solo rimangono illesi, ma non mostrano neppure segni di intossicazione psicotropa da questi funghi. Gli scoiattoli si sono adattati a consumare funghi tossici, ma non è chiaro il motivo. Gli scienziati ipotizzano che possano fungere da vettori per trasportare le spore fungine verso nuovi “habitat”, e per verificarlo, K. Suetsugu intende analizzare gli escrementi degli scoiattoli.
A differenza degli scoiattoli giapponesi, i cani del Kentucky sono stati meno fortunati. Nel 2019, sulla rivista Journal of Veterinary Diagnostic Investigation, i ricercatori M. Romano, H. Doan e R. Poppenga hanno documentato un caso letale di un Labrador domestico avvelenato da amanita muscaria. Nella pratica veterinaria, confermare una diagnosi di avvelenamento da funghi nei cani è complesso: l’ingestione di funghi spesso non viene osservata direttamente, e i sintomi clinici sono aspecifici, potendo derivare da cause sia tossicologiche che non. Nell’episodio descritto, l’avvelenamento è stato diagnosticato tramite test PCR, e nonostante gli sforzi dei veterinari, il cane non è sopravvissuto. Questo non è un caso isolato nella pratica clinica veterinaria.
M. Romano e colleghi hanno avanzato l’ipotesi che i cani possano essere attratti dall’odore tipicamente “ittico” dell’amanita muscaria. Ciò che è possibile per gli scoiattoli giapponesi, dunque, risulta letale per i cani domestici del Kentucky. Il consumo illegale di sostanze stupefacenti ha conseguenze negative su larga scala per la società umana globale e contribuisce in modo imprevisto all’inquinamento degli ecosistemi acquatici attraverso le acque reflue.
Uno studio del team di scienziati cechi guidato da P. Horký, R. Grabic e K. Grabicová ha rivelato l’impatto negativo della metanfetamina presente nell’acqua sul comportamento delle trote. I ricercatori hanno ottenuto risultati che dimostrano come la metanfetamina, oltre a rappresentare una minaccia globale per la salute umana, una volta rilasciata negli ecosistemi di acqua dolce, influenzi significativamente il comportamento motorio e la preferenza per la sostanza durante la sindrome di astinenza nelle trote. L’esperimento è stato condotto dai ricercatori cechi in condizioni di laboratorio, senza rilasciare metanfetamina in fiumi o bacini idrici. I pesci utilizzati, collocati in incubatori-vasche speciali durante lo studio, sono stati acquistati da un fornitore locale con regolare certificazione che ne attestava la salute e l’assenza di infezioni.
Nell’esperimento, gli scienziati hanno monitorato il comportamento di i 120 pesci suddivisi in due gruppi uguali da 60 esemplari ciascuno. In un incubatore, per otto settimane, le trote sono state esposte a metanfetamina disciolta nell’acqua, con il rinnovo di due terzi del volume idrico ogni due giorni. I restanti 60 esemplari, mantenuti in un incubatore separato, non sono stati esposti alla sostanza e hanno vissuto in condizioni indisturbate. Le trote esposte alla metanfetamina, una volta private della concentrazione abituale della sostanza, hanno manifestato un caratteristico comportamento di ricerca. Se confrontato con il modello umano di dipendenza, durante l’astinenza si osserva un aumento di ansia e stress. Nelle trote, i ricercatori hanno rilevato una ridotta propensione al movimento, interpretata come sintomo di stress legato alla sospensione della sostanza.
In uno studio analogo del 2017, G. Bosse e R. Peterson hanno osservato uno stato di “inibizione” nelle trote in astinenza, anch’esso attribuito alla sindrome da deprivazione. Perché alcuni animali subiscono gli effetti delle sostanze psicoattive, mentre altri non mostrano alterazioni comportamentali né attrazione verso composti in grado di modificarle?
A questa domanda nel 2020 ha dedicato uno studio un team di scienziati canadesi: M. Janiak, S. Pinto, G. Daichaev, M. Carrihan e A. Melin. I ricercatori presentano prove genetiche sulle differenze nel metabolismo dell’etanolo tra i mammiferi. In generale, alcune specie animali possiedono il gene ADH7, responsabile del metabolismo, che previene l’intossicazione da alcol. Questo gene aumenta di 40 volte l’efficienza dell’enzima specifico contro l’etanolo nell’organismo di alcuni mammiferi.
Grazie all’ADH7, una dose di nettare fermentato della palma di Bertam, potenzialmente letale per l’uomo, viene consumata dai toporagni senza alcun segno di ebbrezza. Se alcune specie animali possono assumere alcol e sostanze psicoattive presenti in frutti, funghi o piante senza danni significativi, l’organismo umano non sempre riesce a contrastare gli effetti di tali sostanze, sviluppando dipendenza in caso di uso prolungato.
Nonostante la mole delle ricerche in biologia, psicologia evolutiva e altre discipline interdisciplinari, l’impatto di alcol, droghe e tossine sul comportamento e la fisiologia di insetti, mammiferi e pesci rimane insufficientemente studiato. Anche per l’uomo persistono incertezze: le opinioni di scienziati e medici sono controverse. Il neuroscienziato M. Lewis, ad esempio, mette in discussione l’idea della dipendenza come malattia. Il modello patologico definisce la dipendenza una condizione cerebrale anomala, basandosi sulle evidenze di alterazioni nei circuiti neurali che regolano il controllo comportamentale e la gratificazione differita.
Questa teoria, sostenuta da dati biologici, ha portato all’analisi delle differenze genetiche, dei fattori di predisposizione all’uso di sostanze o a comportamenti compulsivi come lo shopping impulsivo. Ma se considerassimo la dipendenza non come una malattia, bensì come una scelta consapevole dell’individuo? E se il comportamento addictivo fosse, prima di tutto, una decisione deliberata? Perché una persona sceglie di essere dipendente? Cosa la spinge ad adottare strategie autodistruttive? Anche qui non è semplice: il modello della scelta, certo, appare più intrigante di quello patologico.
Almeno, offre la speranza che i comportamenti e i pensieri possano essere modificati, mentre il concetto di malattia sembra deresponsabilizzare l’individuo, attribuendo la colpa a una condizione medica. “Non è colpa mia”, si pensa, “esistono farmaci e ricerche, forse un giorno mi guariranno”. Come autrice di questo libro, propendo per un approccio integrato alle cause della dipendenza: ritengo infatti che giochino un ruolo sia fattori esterni che aspetti intrinseci della personalità. La formazione di una dipendenza può essere influenzata da un contesto sociale sfavorevole, dallo stress, da alti livelli d’ansia, dall’incapacità di assumersi responsabilità o dalla mancanza di specifiche abilità per resistervi. Tuttavia, gli esseri umani non sono animali: possediamo una coscienza e la facoltà di scegliere.
Possiamo decidere. E le nostre scelte si orientano verso la dipendenza o verso l’autoconservazione.
Le Dipendenze nel Mondo Umano
Ammetiamolo: non siamo toporagni né tupaie dalla coda piumata, anche se c’è chi si ubriaca fino a ridursi a uno stato bestiale. Ma, a dirla tutta: quanti frutti fermentati dovrebbe mangiare un essere umano per ubriacarsi? Avete davvero pensato a decine di chili? Credete sia plausibile, con un milione di alternative per “sballarsi” disponibili all’uomo moderno? Traiamo piacere dal cibo, dalla creatività, dalla contemplazione delle opere d’arte nelle gallerie, dai massaggi e dal nuoto nel mare, dai film per adulti e da quelli per bambini, dalla musica classica e dal punk rock. C’è chi trova appagamento nel ballo o nei lanci con il paracadute. Siamo diversi: tutti cerchiamo piacere e comfort, ma il nostro “sballo” è unico. C’è chi cerca il “doping” nei film per adulti, chi nell’analisi correlazionale dei dati nella ricerca scientifica. La ricompensa è soggettiva. Se chiedete a più persone: “Vi piacciono i pasticcini?”, le risposte varieranno.
Uno parlerà del piacere di una meringa al limone, un altro preferirà un cestino con crema chantilly, un terzo opterà per una tortina alla gelatina di frutti di bosco. Persino la nostra voglia di dolce e il piacere dei pasticcini con crema soffice possono essere spiegati dai nutrizionisti o costituire un retaggio evolutivo, secondo i biologi. Evolutivamente, siamo programmati per ricavare calorie dal cibo. Ha senso: zuccheri e grassi, ricchi di energia, garantivano la sopravvivenza. Ma oggi, il desiderio di abbuffarsi di dolci per “pienezza sensoriale” è spesso irrazionale. Forse questa strategia era giustificata nell’era primitiva, quando i cacciatori-raccoglitori lottavano per sopravvivere. Negli anni di carestia, divoravano frutti, piante e radici disponibili, poiché alternative scarseggiavano.
La vita delle tribù antiche era più dura: raramente si superavano i 30—35 anni, come confermerebbe il noto antropologo russo e divulgatore scientifico S. Drobyshevskij. Il rischio di essere divorato dai membri del clan o da tribù rivali, di morire per malattie sconosciute o per un colpo alla testa durante una lite per un pezzo di carne era altissimo. Ingerire rapidamente grandi quantità di cibo disponibile era una strategia di sopravvivenza. Ma oggi, il desiderio di “ingoiare lo stress” con i dolci o il rifiuto del cibo per aderire agli standard di magrezza porta a comportamenti distorti: anoressia, bulimia, abbuffate compulsive.
Il punto è che i disturbi alimentari sono schemi comportamentali che portano a una specifica forma di dipendenza. Di queste patologie parleremo approfonditamente in un capitolo dedicato di questo libro. Gli scienziati discutono ancora sul perché gli esseri umani cerchino sostanze alteranti: è un retaggio del passato o un “bonus” evolutivo?
Del resto, anche l’ipotesi che l’orgasmo funga da ricompensa per la riproduzione è molto discutibile. Per gli uomini, l’orgasmo come “premio” durante l’eiaculazione è comprensibile, ma per le donne a cosa serve? Milioni di donne nel mondo rimangono incinte e portano a termine gravidanze senza provare orgasmi. Alcune non sanno nemmeno cosa siano o a cosa servano. E durante il sesso solitario (così si definisce poeticamente la masturbazione) l’orgasmo non è certo una ricompensa per la riproduzione. A cosa serve, poi, l’orgasmo durante il sonno a adolescenti e adulti? Queste domande, insieme ai temi del sesso, del genere e della riproduzione, sono oggetto di studio dei ricercatori del Kinsey Institute, attivo dal 1947.
Una dipendenza eccessiva dal sesso solitario o dall’attività sessuale in generale può non solo indicare un’inadeguatezza adattiva della personalità, ma anche suggerire la presenza di disturbi psichiatrici. Tra l’altro, un aumento del desiderio sessuale potrebbe essere legato a disfunzioni organiche cerebrali. Cosa accomuna il desiderio di ubriacarsi fino allo stordimento, praticare sesso solitario guardando film per adulti, abbuffarsi di dolci fino alla nausea o giocare d’azzardo? Tutti questi fenomeni rientrano nella dipendenza.
La dipendenza è ciò che la società definisce spesso “vizio”, e il vizio, a sua volta, è il tentativo di ottenere piacere immediato attraverso mezzi moralmente condannati. Anche l’ossessione amorosa, con il pedinamento patologico del partner (stalking), il desiderio di possesso assoluto e gli accessi di gelosia, rientrano in una dipendenza di tipo non chimico. Per prima cosa, è necessario esaminare la storia delle dipendenze da sostanze psicoattive, ovvero quelle abitudini umane in cui il piacere è ottenuto tramite un agente esterno, non attraverso uno schema comportamentale.
I sostenitori della teoria dei retaggi evolutivi ritengono che il desiderio umano di bere alcolici possa essere stato utile ai nostri antenati, aiutandoli ad adattarsi a un ambiente ostile, sebbene oggi questa strategia di “bere compulsivo” sia irrazionale.
Tuttavia, beviamo insieme non per dichiararci sentimentalmente innamorati sotto l’effetto dell’alcol, né perché bere da soli sia socialmente inaccettabile (gli alcolisti lo fanno comunque), ma perché è un comportamento radicato nell’evoluzione, come ha scritto il biologo R. Dudley — se avete letto il primo capitolo, sapete di chi parlo. La sua teoria, ovviamente, è controversa e non condivisa da tutti i biologi.
Secondo R. Dudley, beviamo e mangiamo in gruppo, in compagnia, perché — da un punto di vista evolutivo — condividere il cibo con la famiglia, il branco o la comunità è razionale. Nel quadro del processo evolutivo, compiamo ancora oggi, inconsciamente, questo gesto atavico. È come se avessimo bisogno che il nostro branco, la nostra famiglia o tribù sopravvivano.
Evolutivamente, per i primati superiori (gli esseri umani lo sono) bere in gruppo è vantaggioso almeno perché, se ti ubriacavi da solo nell’antichità, un predatore ti avrebbe trascinato via e divorato, mentre attaccare un branco ubriaco non era così semplice. Non esistono prove certe su quando l’uomo abbia iniziato a consumare bevande inebrianti. Nessuno sa come sia cominciato: se abbia trovato per caso un liquido fermentato o abbia imparato a produrlo da frutti fermentati. Ma c’è un’ipotesi curiosa: forse sono state le api ad aiutarlo. È possibile che l’uomo abbia assaggiato l’alcol per la prima volta dopo che un nido d’api, casualmente situato in un tronco cavo, venne distrutto da un temporale. L’acqua allagò il nido, e il miele presente, col tempo, fermentò generando idromele. Ovviamente, questa teoria è credibile quanto il mito africano degli elefanti ubriachi per aver divorato frutti di marula.
Nessuna prova, solo parole. Attiviamo il pensiero logico e la razionalità: affinché un liquido con zucchero e lieviti (come farne a meno?) fermenti e si trasformi in mosto, è necessario collocarlo in un recipiente. Questo implica, per l’uomo, smettere di condurre una vita nomade e stabilirsi in modo sedentario. Forse, quando l’essere umano iniziò a coltivare piante e decise di fermarsi in un luogo, questo primate superiore imparò a produrre bevande vegetali.
Ma anche ragionamenti simili restano ipotesi, per quanto apparentemente logiche, potenzialmente errate. Esiste un’altra teoria alternativa, più plausibile. Nella Turchia moderna sorge l’antichissimo complesso megalitico di Göbekli Tepe. Questo sito templare, risalente a circa 12.000 anni fa (IX millennio a.C.), fu scoperto dagli archeologi già negli anni ’60. Oltre a vari manufatti intriganti, nelle strutture furono rinvenute vasche di pietra, la più grande delle quali ha una capacità di 180 litri. Si potrebbe pensare che gli antichi vi si bagnassero, se non fosse per un dettaglio: le pareti di queste vasche presentano tracce di composti chimici chiamati ossalati.
Chimici che state leggendo, non scandalizzatevi — rivolgete le domande agli archeologi, è la loro ipotesi. Gli ossalati nelle antiche vasche turche potrebbero essersi formati mescolando orzo e acqua per produrre mosto. In sintesi, anche questa teoria manca di prove solide, e possiamo immaginare che a Göbekli Tepe ci si riunisse per bere un’antica bevanda fermentata, antenata della birra. Fantasie? Nessuno ce lo vieta. Una cosa è certa: i Sumeri avevano locali dedicati al consumo di alcol — non sappiamo come li chiamassero — ma basta leggere l’epica sumera per capire che tutti bevevano, con o senza motivo.
Sulle origini della tradizione alcolica europea e del consumo di sostanze psicoattive si trovano approfondimenti negli articoli scientifici del dottore in scienze storiche V. M. Lovčëv, attivista sociale di Kazan’.
Basandosi sulle riflessioni di S. N. Ševerdin, Lovčëv sostiene che quando il lavoro umano iniziò a produrre un surplus grazie alla coltivazione intensiva delle piante, l’uomo cominciò a conservare queste eccedenze, favorendo in alcuni casi la fermentazione dei prodotti. Gettare il surplus era impensabile: il cibo era troppo prezioso per gli antichi, che finivano per consumare le masse fermentate.
In sostanza, è così che l’uomo avrebbe conosciuto l’alcol. Lo storico definisce l’alcol un bug evolutivo — un errore, una casualità nata dal fatto che l’uomo antico, attraverso tentativi ed errori, fece scoperte geniali ma anche altre che influirono negativamente sulla sua specie. Torniamo ai Sumeri. Nella mitologia sumera esisteva la dea Ninkasi, responsabile della birra e delle bevande alcoliche.
Grazie al lavoro della dottoressa in scienze storiche V. Afanas’eva, poetessa e traduttrice dal sumero e dall’accadico, oggi possediamo le parole dell’inno alla dea della birra Ninkasi:
“… Oh, che birra eccellente prepari,
Miele e vino mescoli, goccia a goccia versi,
O Ninkasi, oh, che birra eccellente prepari,
Miele e vino mescoli, goccia a goccia versi…”
Qui i Sumeri non possono negarlo: secondo i fatti e le prove, bevevano, producevano birra e vino. Studiando la scrittura sumera come segno di civiltà, oggi sappiamo non solo della loro epopea, ma anche delle ricevute di debito in cui comparivano orzo, oro e persino birra. Una delle prime raffigurazioni di un recipiente per la birra risale al 3200 a.C. circa: aveva una forma conica. Con l’evolversi della civiltà, la rappresentazione del vaso divenne più schematica sui “documenti” d’argilla, trasformandosi in una sorta di icona con due tratti.
Dell’immagine originale non rimase quasi nulla: i tratti si ridussero a una lettera. A proposito, tra i Sumeri fu una donna, Enheduanna, a comporre poesie sull’alcol. Non è chiaro da dove trovasse tutto quel tempo per scrivere, ma forse lo aveva perché era una principessa, figlia del monarca accadico Sargon il Grande. Insomma, dall’antichità al mondo moderno, la trasmissione dei privilegi familiari resta centrale: se oggi un dipendente di un’azienda prestigiosa vi fa entrare parenti o amici, nulla è cambiato dai tempi dei Sumeri.
Enheduanna, figlia del re, fu nominata dal padre sacerdotessa suprema del dio lunare Nanna a Ur. Sargon ebbe una moglie, Tashlultum, che gli diede cinque figli, ma solo Enheduanna scrisse inni appassionati agli dèi sumeri, tradotti in russo da V. K. Afanas’eva.
Secondo O. Dietrich, la produzione di alcolici tra i Sumeri non era destinata alla conservazione, ma a un consumo immediato in grandi quantità durante feste rituali. Questa pratica non era limitata ai Sumeri: i sovrani della valle del Fiume Giallo in Cina, gli Inca in Sud America e altri usarono l’alcol nei festeggiamenti e per scopi politici, come rafforzare legami con governanti vicini. I regnanti cinesi, ad esempio, ricompensavano i sudditi con alcolici per incentivare il lavoro collettivo.
La cultura dei “corporate event” è evidente anche oggi. In alcune realtà si riduce a un sobrio brindisi con champagne in conversazioni formali; in altre, diventa un’orgia alcolica di fine anno, dopo cui i dipendenti ricordano poco la mattina seguente. È improbabile che gli antichi pensassero solo a ubriacarsi: la sopravvivenza e la riproduzione li interessavano più dell’alcol. Tuttavia, il desiderio di alterare lo stato di coscienza è radicato nella specie umana da millenni. Nell’antichità, il consumo di alcol era rigidamente ritualizzato e controllato dalle autorità.
P. Dauti osserva che nella società peruviana moderna il consumo collettivo di alcol accompagna progetti ambiziosi: poiché il sistema salariale è inefficace, la tradizione del “lavoro festivo” è uno dei pochi modi per portarli a termine. Fin dall’antichità, organizzare banchetti con abbondanti bevute è stato un privilegio dei ricchi e dei benestanti. Siate onesti: una persona al bar che paga da bere a tutti i clienti, non vi sembra facoltosa? Cosa è cambiato? Nelle culture polinesiane e figiane esiste una bevanda alternativa all’alcol, dotata di un lieve effetto narcotico: la kava. Attenzione a non confonderla con lo spumante spagnolo omonimo.
La kava consumata dai polinesiani viene utilizzata in rituali formali e incontri informali. Non è allucinogena, ma contiene principi attivi come flavokavine e kavalattoni, che agendo sul sistema limbico inducono sonnolenza e rilassamento. Dopo l’assunzione, si prova euforia, una piacevole sensazione di disinibizione durante le interazioni sociali, seguita — a seconda della quantità consumata — da un sonno profondo.
La parola kava deriva dal proto-oceanico kavari, che significa “radice amara”. In origine, il termine indicava lo zenzero zerumbet (Zingiber zerumbet), usato come sostanza tossica per la pesca. Nelle isole Figi, il consumo cerimoniale della kava è riservato agli uomini. Seduti in cerchio in base al loro status, si passano una ciotola con la bevanda. Questo rituale non solo unisce la comunità, ma ribadisce la posizione sociale di ciascun partecipante.
Dal punto di vista culturale, alcol e sostanze psicoattive hanno sempre avuto un ruolo simbolico nello sviluppo storico. L’alcol, in particolare, è stato caricato di significati profondi: storicamente, l’ubriacatura aveva motivazioni precise, e le bevande alcoliche fungevano da collante per negoziati di ogni livello, strumento per enfatizzare status e gerarchie.
Ogni sostanza alterante è stata utilizzata nella storia come un’“arma” con obiettivi specifici: personali (cambiare la coscienza) o sociali (rafforzare legami, siglare alleanze, avviare o concludere progetti, conflitti, guerre).
L’uomo moderno, oggi, non ha ancora superato il fascino dell’estasi chimica. Il piacere fine a se stesso non è sempre accettato dalla società, e giustificare gli eccessi è complesso a causa delle gravi conseguenze del consumo di alcol e sostanze psicoattive. Nonostante un consumo minimo di vino possa sembrare sicuro, l’opzione più prudente rimane l’astensione totale. Gli effetti collaterali anche di dosi minime di alcol, validate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono significativi: incidenti stradali, decessi per infarto, danni epatici, degenerazione neuronale e alterazioni decisionali. Tuttavia, anche il proibizionismo ha i suoi costi.
Nel 1914, lo zar Nicola II introdusse nell’Impero Russo un decreto che vietava produzione e vendita dell’alcol, provocando un’impennata della tossicodipendenza, con morfina e cocaina divenute accessibili alla popolazione.
Nel 1982, sotto il regime sovietico, attivisti anti-alcol fondarono a Mosca la Società per la Lotta contro l’Alcolismo. Simili organizzazioni sorsero in 103 città russe, promuovendo manifestazioni, cortei e comizi con slogan su striscioni. Nello stesso anno, i comitati esecutivi locali iniziarono ad adottare risoluzioni contro l’alcolismo.
A Leningrado, nell’agosto 1982, fu vietata la vendita di alcolici nei giorni festivi. Entro fine anno, il Consiglio di Mosca decise di ridurre la distribuzione della vodka nel Paese. Nel 1985, le scene di consumo alcolico vennero censurate dai film sovietici, e gli alcolici furono venduti solo in negozi dedicati, dalle 14:00 alle 19:00.
I risultati della campagna contro l’alcolismo domestico e l’abuso di alcol portarono a un’impennata del mercato nero nel Paese. Un lavoratore su dieci nel settore commerciale fu accusato di speculazione.
Oltre 55.000 persone furono sanzionate per vendita illegale di alcolici, mentre aumentò vertiginosamente la domanda di colonie, zucchero e prodotti alcolici. Davanti ai negozi scoppiavano spesso risse per accaparrarsi i beni. La popolazione iniziò a produrre clandestinamente samogon (distillato casalingo) e a consumare droghe.
Nel Paese, circa 11.000 persone morirono per intossicazione da samogon o sostanze stupefacenti. Tra il 1985 e il 1987, il numero di tossicodipendenti crebbe, e dopo il crollo dell’URSS, con l’arrivo dei turbolenti anni ’90, esplose il consumo di droghe e sostanze tossiche tra bambini e adolescenti.
A. Ju. Kombarova, nella sua ricerca, sottolinea che il picco della tossicodipendenza in Russia fu una conseguenza delle riforme liberali post-sovietiche. Legalmente, per “narcotico” si intende una sostanza sintetica o naturale, nonché preparati sottoposti a controllo nella Federazione Russa, in base alla legislazione vigente.
Si potrebbe concludere qui la storia di alcol e droghe, ma non è la fine. Nel 1990, in Russia arrivò Internet. La rete russa si chiamava Relcom, la popolazione iniziò a dotarsi di computer, e la dipendenza da sostanze psicoattive e alcol fu affiancata da una nuova forma di addiction. Quest’ultima si cristallizzò in uno schema comportamentale specifico, trasformandosi in una dipendenza non chimica.
Ancora oggi non è chiaro quale sia più distruttiva per l’umanità: la dipendenza chimica o quella comportamentale.
Internet è ormai parte integrante della vita umana. Oggi la digitalizzazione è percepita positivamente, poiché la rete è un’enciclopedia di tutto ciò che esiste (e non esiste) per le menti curiose.
Tuttavia, Internet è un Giano bifronte, capace di erodere la qualità della vita moderna. Nella sua monografia scientifica sulle dipendenze non chimiche, A. Ju. Egorov sottolinea che la dipendenza da Internet (netolismo) si è radicata nella società moderna — adulti, adolescenti e bambini — non perché oggi tutti possiedano un laptop o un computer, ma a causa dell’uso della rete tramite dispositivi mobili.
E il gadget mobile non è solo un mezzo di comunicazione, ma uno strumento che genera cambiamenti nelle interazioni umane e nel rapporto tra l’individuo e il mondo esterno. Le persone che si rivolgono a psicologi, psicoterapeuti e terapeuti cognitivo-comportamentali per problemi psicologici spesso lamentano, in sottofondo, un desiderio ossessivo di comunicare su messaggistica e social network, di controllare continuamente nuovi messaggi sul telefono, comportamenti che rubano tempo ed energia.
Dagli schermi dei dispositivi, i social media promuovono una romantizzazione delle relazioni, uno stile di vita spensierato e felice, il successo personale, canoni di bellezza femminile legati alla cosmetica moderna, corpi magri e “sani”. Questa esposizione costante a come “si dovrebbe vivere oggi” agisce su tutte le generazioni in modo più profondo ed efficace della pubblicità in TV o sui media tradizionali.
Tuttavia, questa rappresentazione ossessiva di successo, felicità e perfezione sta portando sempre più spesso a depressione, nevrosi, disturbi del rapporto con il proprio corpo, con l’aspetto fisico e con gli altri. La personalità umana è una struttura fragile.
Manifestazioni estreme d’amore, rapporti sessuali casuali, passione per lo shopping, desiderio di arricchirsi rapidamente con lotterie e casinò virtuali illegali, diete estreme che sfociano in disturbi alimentari, la corsa al piacere attraverso lo sport, persino la lettura compulsiva di libri o la visione “bulimica” di serie TV sono oggi terreno fertile per lo sviluppo di dipendenze non chimiche. Che meccanismo è mai questo, che intrappola l’uomo in comportamenti addictivi, sia che la causa sia una sostanza chimica o un film per adulti?
Nell’ottobre 1994, B. Moyers, noto giornalista statunitense ed ex portavoce del presidente L. Johnson, si trovava in un furgone di un “reparto d’assalto”, accompagnato da una squadra di poliziotti armati non in servizio. Tra l’altro, Moyers era diretto a un crack house ad Atlanta. Vi si recava per un motivo personale gravissimo: recuperare suo figlio di 35 anni, reduce da una ricaduta, come accade a chi è dipendente dalla droga.
Durante il viaggio, Moyers rifletteva sul fatto che nulla sarebbe cambiato e si chiedeva: “Perché mio figlio, pur avendo privilegi sociali e opportunità, ha scelto la strada della tossicodipendenza da crack? Dove ho fallito? Perché non me ne sono accorto?”. Questa domanda tormentò Moyers fino al 1998, quando realizzò il quinto episodio del documentario “Moyers sulla dipendenza: una storia personale”.
Nell’ottobre 1994, Moyers portò il figlio via dalla crack house e lo fece entrare in un centro di riabilitazione. Dopo la cura, accadde l’inaspettato: il figlio smise definitivamente con le droghe, senza mai ricadere. Moyers non riusciva a darsi pace. Voleva capire come fosse possibile, visto che tante vite erano state distrutte dalle droghe. Durante le riprese del documentario, giunse alla conclusione che il cervello di suo figlio fosse stato “dirottato”. Nel film, il giornalista raccontò brevemente la storia del figlio e promise che “gli scienziati ci mostreranno come le droghe dirottano il cervello”.
Nel documentario furono mostrate immagini di una risonanza magnetica (MRI), mentre lo scienziato di Harvard S. Hyman spiegava come l’MRI possa visualizzare l’emergere del desiderio nel cervello umano. L’idea del “dirottamento” si diffuse tra i biologi, nonostante fosse solo una metafora. Grazie a Moyers, però, questo concetto gioca un ruolo chiave nelle moderne teorie sulla dipendenza.
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